giovedì 28 maggio 2015

RIVOLUZIONE? SI, MA QUALE?

Rivoluzione: Mutamento radicale di un ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici…..(DizionarioTreccani)

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Rivoluzione, normalmente siamo abituati ad associare tale termine ad un movimento popolare e, perlopiù violento, teso a sovvertire il potere al governo qualora venga percepito come iniquo e vessatorio e non ci siano alternative per farlo in modo diverso.
Da queste motivazioni nascono le grandi rivoluzioni del passato da quella francese a quella russa, cinese, cubana e a cui possiamo anche ascrivere il movimento popolare della resistenza italiana che portò alla caduta del fascismo, anche se il contesto all’interno di una guerra mondiale era decisamente diverso.
Si parla, altresì, di rivoluzione anche in occasione di grandi e sostanziali mutamenti dello sviluppo economico e sociale come in occasione della cosiddetta rivoluzione industriale 
che, grazie alla meccanizzazione e alle innovazioni tecnologiche, portò ad un radicale cambiamento dei modi di produzione. Altre rivoluzioni sono di carattere culturale, politico o sociale senza connotazioni particolari che le leghino alla sovversione del potere costituito.
Abbiamo avuto anche “rivoluzioni silenziose” e altre mistificate per tali per avvalorare scelte politiche degli ultimi anni in Italia, come la cosiddetta rivoluzione liberale, per dare dignità e spessore ad un “liberi tutti” che aprisse le porte non alla libertà ma al liberismo che, come sappiamo, è tutt’altra cosa. 
Tornando a noi, perché mai parlare di rivoluzione oggi in una società come quella italiana che pare assopita e rassegnata sotto i colpi e l’invadenza mediatica di un potere che, dietro l’ingannevole maschera del decisionismo, spiana diritti e sposta progressivamente e subdolamente quote di ricchezza dai molti succubi ai pochi potenti.
Partiamo dal presupposto che oggi, non ci sono le condizioni sia nazionali che internazionali, per poter ipotizzare una rivoluzione violenta, di massa e di stampo classico.
La quota di benessere percepita e di apparente libertà è ancora sufficientemente ampia da non permettere ipotesi del genere e non so neanche se sia augurabile, viste le ripercussioni che in ogni caso ricadrebbero sulle masse.
La rabbia oggi viene soprattutto mediata e veicolata attraverso i nuovi mezzi di comunicazione che danno, però, un’immagine distorta e non veritiera dei sentimenti collettivi visto che emergono molto più quelli rabbiosi, razzisti, qualunquisti rispetto quelli che denunciano argomentando e prospettando ipotesi di azione e soluzione.
Infatti se si assiste ad un talk show o si scorre una pagina di un social sembrerebbe che il problema primo siano i rom, gli extracomunitari, i diversi in genere, opacizzando quelle che sono le vere motivazioni delle ingiustizie e delle sofferenze degli ultimi e dei penultimi.
Il potere lascia sul terreno gli ossi spolpati e assiste gongolante alle furiose liti tra i cani che tentano di accaparrarsene una parte.
Quindi sarebbe già rivoluzionario nel senso nobile del termine, riuscire a spostare l’ottica da questa limitata e pericolosa visione ad un’altra che sia più aderente alla realtà dell’origine dei problemi. Per far questo però, ed ecco il senso più attuale della rivoluzione in Italia, bisogna che si rompano gli schemi, che si abbia il coraggio di uscire dai recinti imposti da leggi e norme funzionali solo alla gestione del potere e non alla risoluzione dei problemi. Bisogna anche avere il coraggio di mettere da parte simboli e metodi cui possiamo essere sentimentalmente legati, ma che, ormai, non vengono più percepiti come elementi di cambiamento, anzi! Così come bisogna avere il coraggio di mettere da parte il bon ton istituzionale laddove questo rappresenti un limite all’azione, il politically correct ha fatto più danni dell’uragano Katrina. Riappropriarsi della consapevolezza e, delle scelte conseguenti, per la quale il ricco e potente può permettersi di rispettare i tempi e le logiche dei balletti della politica,  mentre i poveri non possono usufruire di  questo privilegio per cui le risposte e le soluzioni non possono essere rimandate sempre ad un auspicabile futuro frutto di un rituale rispetto istituzionale.

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In quest’ottica appare limitato e inadeguato a fornire risposte qualsiasi tentativo di dare vita a formazioni politiche che si posizionino nel solco di una tradizione che ormai sappiano essere di pura rappresentanza laddove non prevedano anche azioni che vadano al di là delle normali forme di opposizione politica istituzionale. Non fraintendiamoci non intendo con questo ipotizzare forme violente di contestazione o assalti ai forni, ma ci sono mille esempi di opposizione al potere non violente ma considerate illegali e percepibili come rivoluzionarie, vedi il coraggio di una Rosa Parks, o lo sciopero dei telai in India ai tempi di Ghandi
Oggi qualsiasi formazione politica che voglia rappresentare il cambiamento e distinguersi nel magma altrimenti indistinto della politica italiana, non può che essere “rivoluzionario” nell’appeal e radicale nelle scelte. Il cerchiobottismo non paga e, soprattutto, non serve.
La profondità delle ferite imposte alla democrazia e, soprattutto, ai cittadini, ai giovani, alle donne di questo paese negli ultimi venti anni non possono esse curate con i pannicelli caldi, c’è bisogno del coraggio per operare uno shock rivoluzionario in grado di rimettere in discussione tutte le scelte fatte in questo periodo, a cominciare dal sistema elettorale, dalla redistribuzione della ricchezza, dagli accordi europei, dal tipo di sviluppo che si ipotizza, dal riportare e mantenere nelle mani pubbliche i servizi, l’assistenza, l’istruzione ponendo rimedio a tutte le devastanti riforme portate avanti dai governi che si sono alternati in questi anni.
Di questo ha bisogno l’Italia, di questo hanno bisogno i suoi cittadini, di questo abbiamo bisogno noi per continuare ostinatamente e, nonostante tutto, a credere che non siamo vittime di un’ avvilente gioco delle parti.


MIZIO  

venerdì 22 maggio 2015

DOVEVAMO ARRENDERCI. LO DECISERO AL G8 DI GENOVA

Manovre lacrime e sangue per tutti tranne che per la “casta” mondiale, sovranità limitata o revocata, bavaglio universale all’informazione. Sindacati neutralizzati, banchieri al governo e partiti-fantasma ormai agli ordini dei signori dell’economia. Quello che oggi chiamiamo crisi era stato largamente previsto, dagli stessi super-poteri che, già nel 2001, prima ancora dell’11 Settembre, si preoccuparono di disinnescare sul nascere una potenziale bomba democratica planetaria, quella del movimento no-global. Diritti contro soprusi, cittadinanza contro privatizzazione. In altre parole: anticorpi civili per difendersi dalla globalizzazione selvaggia. Profeticamente, li pretendeva il “popolo di Seattle”. Fu fermato appena in tempo e nel modo più brutale, con il bagno di sangue noto come G8 di Genova.

black bloc in azione

E’ la tesi che fa da sfondo al drammatico libro-inchiesta “G8 Gate” firmato da Franco Fracassi per la giovane casa editrice Alpine Studio, nata come voce di qualità nel panorama italiano della narrativa specialistica d’alta quota ma poi, grazie al team guidato da Andrea Gaddi, sempre più disponibile a sondare il terreno minato della letteratura d’indagine: «Cresce la fame di verità, il bisogno di conoscere le vere ragioni di quello che ci sta succedendo», sostiene Gaddi, che nella collana “A voce alta” presenta titoli come quelli dedicati ai retroscena dell’attentato alle Torri Gemelle o al potere segreto dell’Opus Dei. In primissimo piano, grazie al lungo lavoro di Franco Fracassi, l’analisi sulle nuove forme della strategia della tensione: a cominciare dai black bloc, fantomatico gruppo di guastatori che nel 2011 ha «messo a ferro e fuoco Roma e incendiato i boschi della val di Susa», dopo aver devastato, una decina d’anni prima, Praga e Seattle. E soprattutto: Genova.

I black bloc  «hanno un nome, ma non un volto». Sono note le loro azioni, ma non il perché le compiono: «I black bloc sono temuti, odiati, talvolta idolatrati, ma nessuno li conosce veramente», dice Fracassi, presentando il suo ultimo lavoro sui neri guastatori senza volto, sempre così puntuali quando si tratta di rovinare cortei importanti, molto temuti alla vigilia proprio perché pacifici. «Di loro si dice che sono anarchici, che sono poliziotti infiltrati, che sono pagati da chi vuole sabotare le manifestazioni e i movimenti di protesta, che sono fascisti camuffati, che sono semplici sbandati carichi d’odio e con la voglia di annichilire il mondo che li circonda». Il nome deriva da una sigla storica, quella degli antinuclearisti tedeschi. Ma è stato tristemente sdoganato soltanto a Genova, nella “macelleria messicana” scatenata dai reparti antisommossa nel 2001: «La polizia ha letteralmente massacrato dimostranti inermi, senza procedere all’arresto di un solo black bloc: ai “neri” è stato anzi permesso di devastare impunemente l’intera città».

Il libro di Fracassi ripercorre le tappe fatali della carneficina: dall’antipasto di Napoli del 17 marzo, in cui furono caricati selvaggiamente i manifestanti pacifici, fino al carnaio di luglio a Genova, con epicentro piazza Alimonda e l’atroce fine di Carlo Giuliani, nonché il corollario della vergogna: il pestaggio indiscriminato della scuola Diaz e poi le torture nella caserma di Bolzaneto. Cuore di tenebra del “buco nero” passato alla storia sotto il nome di G8 di Genova, la crudele uccisione di Giuliani: la pietra con cui si è infierito sul cadavere, fracassandogli il cranio nella speranza di inscenare un incidente credibile (il giovane no-global “ucciso accidentalmente da un sasso lanciato dai dimostranti”) e poi la sparizione della prova regina: Carlo Giuliani fu frettolosamente cremato, racconta la madre, Heidi, perché ai genitori fu raccontato che al cimitero non c’era posto per la tomba. Così, il forno crematorio cancellò per sempre anche il proiettile che Carlo aveva ancora nel cranio: fu davvero sparato dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, che oggi chiede la riapertura del processo perché sia finalmente accertata la verità?

La violenza della repressione

Allora reporter d’assalto per l’agenzia ApBiscom, Fracassi si calò fino al collo nella strana guerra civile che devastò le strade del capoluogo ligure, vivendo da vicino l’intero campionario dell’aberrazione andata in scena in quei giorni: la polizia che osserva le devastazioni dei black senza muovere un dito e poi, appena i “neri” si allontanano, carica senza misericordia i dimostranti inermi. Fotogrammi sconcertanti, che Fracassi offre ai lettori con l’immutata emozione dello sguardo ravvicinatissimo, delle manganellate ricevute, delle scene di terrore, della caccia all’uomo scatenatasi persino al pronto soccorso, tra i feriti più gravi. Pagine incalzanti, sempre nel cuore della tensione, tra le fila degli stessi agenti antisommossa – divenuti irriconoscibili, in preda a un’aggressività inaudita – e poi la prima linea delle “tute bianche”, tra ossa rotte e teste “aperte” dalle botte, fino agli inermi manifestanti cattolici: le suore colpite al volto, le ragazzine sfigurate e torturate. Ma soprattutto loro, gli inafferrabili black bloc.


black bloc
  
Fracassi li ha seguiti da vicino, per ore: piccoli gruppi ben addestrati, pronti a devastare negozi, automobili e bancomat per poi sganciarsi rapidamente, sempre condotti al sicuro, nel dedalo dei vicoli, da misteriose “guide” perennemente al telefono: con chi? Con “qualcuno” che era perfettamente al corrente, in tempo reale, dei movimenti dei reparti antisommossa. Deduzione elementare, conclude amaramente il giornalista, che ha affrontato un estenuante lavoro di ricerca consultando anche fonti riservate, forze dell’ordine e servizi segreti. Proprio grazie alla sua tenacia, alla vigilia della mattanza riuscì a conquistare la fiducia di alcuni uomini della polizia: «Se vuoi vedere il macello, fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi», gli anticipa un funzionario di polizia alla vigilia del fatale venerdì 20 luglio: «Arriveranno dei black bloc e distruggeranno la banca. Due-tre minuti al massimo. E’ quello il segnale dell’inizio». Fracassi si presenta nel luogo indicato, e i black bloc arrivano con puntualità cronometrica. Prima di intervenire, proprio come previsto, gli agenti attenderanno che si siano allontanati. Poi caricheranno, travolgendo soltanto innocenti.

Carlo Giuliani ormai senza vita

Se a Genova, come è stato da più parti denunciato, «la democrazia è stata sospesa», non è mai stato chiarito, del tutto, da chi. Dal governo Berlusconi? Tesi debole: l’esecutivo è finito sulla graticola, esposto a critiche planetarie. L’allora vicepremier Fini dietro le quinte? La regia operativa probabilmente anomala, centralizzata nelle mani dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro che di fatto scavalcò le autorità genovesi, questura e prefettura? No, c’era ben altro: secondo Fracassi, chi a Genova “voleva il morto” non era necessariamente italiano. Anzi, quasi certamente era americano: «C’erano troppi interessi in gioco, e il movimento no-global allora era fortissimo e faceva davvero paura. A chi? Alle grandi banche, alla finanza mondiale, alle multinazionali». Genova doveva essere la consacrazione definitiva della protesta, la nascita ufficiale di un “sindacato mondiale” dei cittadini, pronto a mobilitarsi ovunque per difendersi dagli abusi della Gianni De Gennaro globalizzazione. Guai se a Genova il movimento avesse vinto: sarebbe diventato troppo ingombrante. Un brutto cliente, col quale i “padroni del mondo” avrebbero dovuto fare i conti. Meglio toglierlo di mezzo per tempo. Coi poliziotti? Ma no: coi black bloc.

Incolpare il governo Berlusconi e la polizia italiana per il massacro di Genova «significa non aver capito nulla di come va il mondo», avverte David Graeber, antropologo della Yale University ed esperto di fenomeni anarchici: «Nei fatti di Genova, il governo americano è infinitamente più coinvolto di quello italiano». Secondo l’antropologo consultato da Fracassi, «Genova non è stata altro che il punto terminale di una strategia avviata a Seattle, sviluppata a Praga e terminata in Italia». Movente: «Nel luglio 2001, all’amministrazione Bush interessava molto di più combattere il movimento no-global che Al-Qaeda: era quella la priorità della Casa Bianca». Un altro americano, Wayne Madsen, reduce dagli scontri al Wto di Washington l’anno prevedente, rivela: «Ho raccolto documenti e testimonianze dall’interno del movimento anarchico Usa e dell’intelligence». Cia, Fbi e Dia organizzavano e guidavano gruppi di devastatori anche nelle manifestazioni no-global nel resto del mondo? «E’ il loro modo di agire, ovunque ci siano interessi Franco Fracassi americani da difendere».

Per “G8 Gate”, Fracassi ha sondato centinaia di fonti. Tutte convergono drammaticamente verso un’unica ipotesi: a Genova si “doveva” spezzare le gambe, a tutti i costi, al nuovo movimento democratico mondiale. Obiettivo, veicolare il messaggio più esplicito: “Restate a casa, rinunciate a scendere in piazza perché può essere pericoloso”. Mandanti: le grandi multinazionali e persino le loro fondazioni, all’apparenza innocue e filantropiche, in realtà strettamente collegate con settori dell’intelligence. Disponibilità economica: illimitata. E poi la manovalanza principale della missione: i mercenari chiamati black bloc, ben addestrati in gran segreto e specializzati nelle tattiche della guerriglia urbana. «Le forze dell’ordine presenti a Genova – riassume Fracassi – sarebbero state in parte complici e in parte impotenti di fronte ai devastatori», i “neri” sbucati dal nulla e rimasti totalmente impuniti. «Grazie a una sapiente regia mediatica», tutto è avvenuto «di fronte ai giornalisti, ai fotografi e alle telecamere di tutto il mondo, che avrebbero creduto di raccontare le azioni di una formazione chiamata Black Bloc».

Ma tutto questo da chi sarebbe stato finanziato e poi coperto? Una domanda, ricorda Fracassi, che si era posto retoricamente anche il generale Fabio Mini, già comandante delle forze Nato in Kosovo: come avrebbero fatto, i “neri”, «a partire da Berlino e a venire a Genova potendo passare indisturbati tutte quelle frontiere?». E poi: chi ha pagato quel viaggio? «Lei ha una risposta?», domanda Fracassi. «Certo», risponde Mini: «Ci sono organizzazioni che sono fatte apposta per questo genere di cose: si occupano della logistica, della gestione delle risorse, della protezione di chi partecipa a queste operazioni». Sia meno vago, lo incalza Fracassi. «Non posso», ammette malinconicamente il generale Mini.

Se è noto che in quei giorni a Genova c’erano non meno di 700 agenti dell’Fbi, Daniele Ganser, insegnante di storia a Basilea ed esperto di organizzazioni coperte come Gladio e Stay Behind, sostiene che la cooperazione tra servizi segreti americani e italiani sarebbe andata «ben oltre il semplice controllo dell’ordine pubblico». Il professore svizzero mette in relazione il Sismi con la Nsa, l’agenzia centrale di intelligence di Washington: «Secondo lei – dice a Fracassi – da chi provenivano le informazioni sulle “tute nere” dall’estero? E’ l’Nsa che ha il compito di intercettare le comunicazioni telefoniche, i fax, le e-mail. Poi le ha passate alla Cia, che a sua volta che ha date al Sismi», conclude Ganser. «A Genova erano presenti entrambi i servizi segreti, italiano e americano: le risulta abbiano fatto qualcosa per fermare i “neri”?».


IL VERO MERITO E’ LA FORTUNA




Quanto si parla di merito e meritocrazia in questi ultimi tempi, sembra quasi che all’improvviso si sia caduti tutti contemporaneamente dal pero e ci si sia resi conto che non è sufficiente essere capaci, competenti, onesti per andare ad occupare posti di responsabilità.
Pur tuttavia non è di questo aspetto, sia pur importante, che voglio parlare perché alla fin fine si tratta comunque di una diatriba quasi fine a se stessa in quanto è quasi impossibile partire da dati sicuramente oggettivi (a parte alcuni rari casi) per cui le conoscenze, l’appartenenza, la difesa d’interessi particolari, entrano a far parte dei criteri di valutazione al pari, quasi, di quelli del merito vero e proprio.
Cosa indubbiamente grave e da censurare ma che non tiene conto del fattore che più di tutti rende limitato e superficiale il dibattito sulla meritocrazia.
Tra un ragazzo/a che nasce in una favelas brasiliana e il fglio/a di un benestante professionista di un paese occidentale pensiamo che sia la valutazione di merito la vera discriminante?
Quante possibilità avrà il primo rispetto al secondo, non dico di andare ad occupare un posto di responsabilità, ma di avere appena la possibilità di pensarlo possibile?
Chi riesce anche solo a mettersi in competizione è già all’interno di un sistema che premia fortuna e caso prima che la competenza e fa parte già di una elite che “merita” a prescindere.
Ovviamente, non mancherà, sicuramente, chi porterà il proprio o altrui singolo esempio di qualcuno che ce l’ha fatta pur partendo da posizioni sociali svantaggiate.
Difatti è talmente poco probabile che viene indicato come evento possibile non certo frequente, al pari della famosa mosca bianca.
In altri ambienti invece, quanti figli, non dico di politici, ma di imprenditori, professionisti, appartenenti alla ricca borghesia rimangono tagliati fuori da posti di uguale o superiore prestigio? Un numero sicuramente assimilabile a quello dello stesso concetto della mosca bianca di prima.
Quindi, quando sento parlare di meritocrazia sono portato a considerarlo un mero esercizio di autopromozione, pur legittimo e comprensibile, legato a doppio filo e funzionale alla logica della competizione compresa nell’ideologia liberista imperante.
Fino a che non ci sarà una vera giustizia sociale il discorso sulla meritocrazia sarà comunque limitato e indirizzato per il 90% dal caso e dalla fortuna e, per il restante 10% ,dalle proprie capacità e dalle influenze esterne.
Chi nasce in certi ristretti ambienti privilegiati ha già vinto, al di là del merito.


MIZIO

martedì 12 maggio 2015

LE STORIE DEGLI SPAZI BIANCHI: POI ARRIVO’ DON ROBERTO...

"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".


Era un’estate della fine degli anni ’60, la scuola era finita e, a quel tempo, non si aspettavano le vacanze per andare in villeggiatura, se non per qualcuno più fortunato con la casa al paese o in visita parenti. Era sufficiente qualche giornata al mare e  l’immenso tempo libero che ci aspettava. Praticamente dall’alba al tramonto impegnati in infinite partite a pallone o altrettanto infinite scorribande nei prati o nelle vie del moderno quartiere che stava sorgendo vicino la nostra borgata. Un paio di volte a settimana un prete, mi pare si chiamasse Don Arnaldo, con un gruppo di giovani, ci veniva a trovare per farci fare un po’ di doposcuola. Cosa fatta apposta per la gioia delle nostre apprensiva madri e il nostro malcelato disappunto. Tanto più che questo comportava anche il gravoso e tedioso impegno domenicale della messa, spesso anche da servire come chierichetti. Ricordo ancora la sorpresa, in una di quelle occasioni, di uno scapaccione partito verso la mia testa il giorno che dichiarai  di essere comunista. Ovviamente non sapevo neanche cosa volesse dire, ma lo ripetevano spesso i miei in casa e per me affermare di esserlo era la cosa più naturale del mondo. I figli non dovevano forse seguire gli insegnamenti dei genitori?
Non capii al momento. Lo capii pochi anni dopo quando di quello schiaffo capii la violenza non solo fisica.
Don Arnaldo, comunque, non fu molto costante nel suo volontariato con i figli dei non abbienti (eravamo noi). All’improvviso, diradò le sue presenze sino a non venire più. Noi riprendemmo l’abituale rituale estivo, senza più il timore di dover rinunciare a qualche pomeriggio per annoiarci con i compiti estivi.
Si arrivò così ai primi di settembre, quasi alla fine dell’estate e, considerando, che a quei tempi, la scuola iniziava ad ottobre avevamo ancora quasi un mese a nostra completa disposizione.
Era di pomeriggio, impegnati nell’ennesima disfida calcistica sul nostro meraviglioso campo in terra battuta ed erba secca con le porte indicate da sassi e barattoli. “Guardate” disse qualcuno, “Don Arnaldo”. Ci girammo dalla parte della strada sterrata che conduceva nella nostra borgata non senza un certo timore e vedemmo, in effetti, un prete, senza tonaca come si cominciavano a vedere in quei tempi, che si avvicinava. Ma non sembrava proprio Don Arnaldo. Era più magro, più giovane, con la barba. Interrompemmo la partita, tanto l’avremmo ripresa quando volevamo, anche il giorno dopo. E ci avvicinammo con quella petulante curiosità sfrontata  dei bambini abituati a vivere in strada. “Ciao, chi sei? Un prete?” “Certo non si vede?” “Come ti chiami?” “Roberto e voi?” “Adolfo”, “Luciano”, “Cesidio”, “Maurizio”, Luigi”, “Emidio”…..
"Ma se sei un prete sei Don Roberto, no Roberto e basta"
Ci chiese molte cose di noi, della nostra vita, della scuola che frequentavamo. del lavoro dei nostri genitori e molto chiedemmo anche noi. Infine ci salutò per ritornare nella chiesa (San Policarpo) dove era viceparroco. Noi riprendemmo a giocare non sospettando minimamente che, da quel giorno, la nostra vita non sarebbe più stata la stessa. Le visite di Don Roberto nella nostra borgata divennero sempre più frequenti fino a che, all’inizio delle lezioni, ci comunicò che avrebbe aperto una sua scuola. Noi si pensava a qualcosa di molto simile ad un doposcuola classico, e così pensavano anche le nostre famiglie. Ben contente di saperci in un posto controllato e a studiare invece che per la strada. Insieme a Don Roberto arrivarono anche dei ragazzi con il compito di affiancarlo in questa attività. Maurizio, Matteo, Grazia, Alberto, Enzo, Agnese….. Erano però, un po’ diversi da quelli che eravamo abituati a vedere in chiesa. Erano barbuti con i capelli lunghi, le ragazze colorate e nient’affatto timide o riverenti nei confronti di Don Roberto, anzi! Erano i primi risultati visibili e tangibili delle lotte femministe, a noi completamente ignote fino a quel momento. Il nostro rapporto con l’universo femminile era, infatti, limitato al tentare di sfuggire alle attenzioni delle nostre coetanee ostinate nel volerci coinvolgere nei terribili giochi che tanto piacevano loro. Ma che noi, iperattivi, insofferenti e  anarchici, nel senso più puro del termine, rifuggivamo come la peste.
Fin dal primo giorno che cominciammo a frequentare la Scuola 725 ci si accorse che non era una scuola nel senso classico del termine. Infatti, finito di fare i compiti della scuola “vera”, quella statale, Don Roberto non ci fece andare via, aprì un quotidiano (era “il Giorno”) e cominciò la lettura delle notizie. Ci cominciò a parlare di Vietnam, di scioperi, di ricchi, di poveri, di capitalismo, di comunismo. Alla parola comunismo mi rallegrai, quella la conoscevo, ero comunista anch’io! Ma non lo dissi, lo scapaccione di Don Arnaldo aveva lasciato un ricordo doloroso e, benchè Don Roberto sembrasse decisamente diverso, pensai fosse meglio non rischiare. Finita la lettura del giornale iniziammo la lettura di un libro “Tu passerai per il camino” di Vincenzo Pappalettera sopravvissuto al campo di sterminio di       Mauthausen e cominciammo così, a conoscere gli orrori del nazismo e del fascismo. Nei giorni seguenti la lettura collettiva divenne una piacevole routine e, devo dire, molti di noi non vedevano l’ora di mettere via i libri di scuola per sapere, sentire, parlare. Senza averne consapevolezza stavamo crescendo, non solo dì età, che quello è naturale e scontato, ma nel senso più compiuto del termine. Stavamo prendendo coscienza!
La politica per noi, fino ad allora, era cosa lontana e astrusa, Don Roberto la fece diventare parte integrante del nostro vivere quotidiano. “I ricchi, i borghesi ci hanno sempre fregato!” stava diventando la nostra parola d’ordine. Per un bambino la sua condizione, per quanto precaria, è l’unica possibile perché l’unica conosciuta. Il suo mondo famigliare e ambientale è tutto il mondo che serve, non ha bisogno di farsi domande su differenze sociali che ,almeno fino all’adolescenza, non pesano e non vengono avvertite. Ma il prendere coscienza, se pur in maniera manichea, didascalica e, in quel momento, non strutturata fece fare un balzo enorme alla nostra autostima. Non eravamo più solo i poveri e, per alcuni benpensanti del quartiere, gli zingari. Ma eravamo i rivoluzionari, quelli che avevano capito il mondo, le sue ingiustizie. Quelli che le avrebbero combattute e cambiate, ne eravamo certi!
Don Roberto in tutto questo tsunami emotivo e comportamentale che aveva suscitato, spiegava e indirizzava la nostra indignazione, il nostro risentimento verso la conoscenza e l’analisi. Noi si proponeva barricate, assalti ai “borghesi”, vendette sulla base della legge del taglione, lui ci riportava al ragionamento, all’efficacia dello strumento del dialogo, pur non escludendo, in futuro, anche l’adozione di forme di lotta più incisive.
Intanto partecipavamo insieme a lui, alle prime manifestazioni di piazza. Ricordo la prima in assoluto a Piazza Venezia per la pace nel Vietnam, un’altra per la tragedia della fame in Biafra anche se Don Roberto, ci teneva a tenerci estranei e distaccati dai partiti, anche da quelli d sinistra, per non essere etichettati e manipolati. La nostra voglia di azione era però un potenziale che non poteva essere disperso e si decise, allora, di scrivere una lettera al sindaco, sulla falsariga di “Lettera ad una professoressa” della scuola di Barbiana di Don Milani. Lettera dove avremmo denunciato le precarie situazioni abitative e sociali della nostra borgata e avremmo potuto attaccare i borghesi e il potere politico. La stesura del documento ci impegnò per mesi, con ragionamenti, riletture, rifacimenti, sempre sotto la supervisione di Don Roberto e dei suoi collaboratori. Per la presentazione fu organizzata una conferenza stampa che ebbe nei giorni successivi l’effetto di una bomba ad alto potenziale. Divenimmo l’oggetto d’ attenzione di televisioni nazionali ed estere, intellettuali e politici, si avvicinarono alla scuola, molti alla ricerca di una facile pubblicità, decine di giovani soprattutto dell’estrema sinistra venivano a conoscere il prete e i bambini rivoluzionari, la maggio parte di loro, però, solo per poter dire “sono stato da loro”. La stampa borghese e di destra metteva l’accento sull’incredibile e inaccettabile ruolo di un prete che faceva politica speculando sull’ingenuità dei bambini. Puntava l’indice accusatore sui poster di MaoTse Tung e di Che Guevara alle pareti, insieme al crocefisso e al Vangelo. E chiedevano l’intervento della Curia per “mettere a posto” quel prete comunista e lasciare che i figli dei poveri non si mettessero troppi grilli in testa. Ma che scherziamo?
In quel periodo Don Roberto aveva ancora la messa di maggior affluenza la domenica e, alla fine di una di quelle, fu avvicinato e aggredito da alcuni fascisti della zona. Non ricevette solidarietà da parte dell’istituzione ecclesiastica ma cominciarono
gli interventi della Curia, prima diplomatici attraverso canali discreti, come nella migliore tradizione vaticana. Attraverso discreti inviti a moderare gli atteggiamenti e le posizioni, poi sempre più decisi e minacciosi. Fino a che fu “licenziato” (non so se sia il termine più adatto) da viceparroco della sua parrocchia e si trasferì a vivere definitivamente in borgata, insieme a noi. Continuò la sua opera di impegno quotidiano nella scuola, ormai diventata un punto di riferimento non solo per la città di Roma. C’erano giorni in cui si era quasi assediati da una moltitudine di persone che si avvicinavano per conoscerci. Arrivarono libri, documentari, saggi. Don Roberto era molto impegnato a difenderci dalla curiosità e da tutto ciò che quel clamore mediatico poteva rappresentare, in negativo, per dei ragazzi neanche adolescenti
Credo che pochi abbiano avuto la fortuna di crescere tanto, e tanto in fretta come noi in quei pochi anni. Da ragazzi destinati probabilmente, ad una vita trascorsa tra strada, bar e forse, anche qualcosa di peggio, ci trasformammo in uomini coscienti e impegnati. La cultura, la politica, la curiosità intellettuale divennero nostro patrimonio permanente utilizzato, successivamente, da ognuno nel ruolo e nel posto che le cose della vita avevano predisposto per lui.
La borgata pian piano si svuotava, molti di noi (me compreso) si trasferivano nei nuovi quartieri residenziali. La restante parte fu abbattuta e i residenti trasferiti ad Ostia.
Don Roberto capì che la sua missione, almeno con noi, era finita e non ce ne sarebbe stata probabilmente, un’altra uguale. Un nuovo mondo stava nascendo e nuovi poveri, nuove situazioni richiedevano la sua presenza di “missionario”, come in effetti fece.
Non ci siamo mai salutati e, non ci siamo quasi più visti. Solo saltuarie e commosse telefonate. Se n'è andato tenendo per sé forse, la sua unica delusione. Quella di non essere riuscito a trasmetterci, insieme alla passione per l’impegno sociale e politico, la sua cristallina fede cristiana. Ma sia lui che noi, sappiamo che se esiste da qualche parte un paradiso dei giust,i è lì che ci ritroveremo tutti quanti!


MIZIO

domenica 3 maggio 2015

VOGLIO DIRE NO!


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Ho letto molti interventi sui fatti di Milano del primo maggio. Alcuni scontati e noiosamente ripetitivi, alcuni, pochi, interessanti. Quello, ad esempio, di ieri pubblicato dal Manifesto (http://ilmanifesto.info/milano-i-riot-che-asfaltano-il-movimento/), in cui, senza voler entrare nel merito della ragione e del torto per le tesi portate avanti dall’autore, si cerca di analizzare  quelle che potrebbero essere le conseguenze per il movimento noglobal o per la piazza in genere. A tal proposito illuminanti alcuni commenti da parte anche di militanti di sinistra che vanno oltre la condanna pura e semplice della violenza per approdare a conclusioni in cui si mettono in discussione le ragioni dei molti “no” che sono dietro le proteste del movimento di questi anni. Considerando, quasi, il voler contrastare e indirizzare lo sviluppo della società verso un modello più rispettoso dell’uomo e dell’ambiente come qualcosa che possa fiancheggiare o avallare il comportamento violento di alcuni “provocatori” più o meno prezzolati, sicuramente strumentalizzati. Io non sono quello che condanna a prescindere la violenza se questa è espressione di un sentimento e di un movimento popolare e di massa, la condanno, e fermamente, quando questa si trasforma in esaltazione dell’azione fine a se stessa senza legami o ricadute sul movimento in generale, anzi con effetti negativi diventando esercizio auroreferenziale da esaltare sui social.
Bene, anzi, male, questo è il cul de sac, in cui certe manifestazioni fanno piombare l’intero movimento, già precario di suo. Io, e come me, molti altri vorremmo continuare ad essere liberi di esprimere e manifestare il nostro dissenso e i nostri no (che poi sono altrettanti si ad altre scelte) senza il cappio al collo della delegittimazione e della condanna preconcetta assimilando tutto alla violenza imbecille e colpevole di alcuni professionisti del caos.
Detto questo non si può, però, fare a meno di notare che la gestione di molte manifestazioni ormai denota un’incapacità imbarazzante nell’isolare e espellere le frange più violente ben visibili e identificabili, lasciando mano libera a loro e soprattutto a chi c’è dietro e ci specula. Adesso, vi prego, non mi si faccia il discorso che hanno fatto molti più danni le ruberie e le scelte dei potenti di quelli fatti in piazza,. Lo so, e ne sono consapevole, ma i danni più rilevanti, gravi e, spesso, irrimediabili sono quelli fatti alle coscienze e alle lotte di migliaia di persone che non meritano di essere assimilate alla violenza stupida e fine a se stessa ma le cui posizioni e proposte vengono regolarmente oscurate da episodi di cronaca. La sinistra ha un compito storico fondamentale e, forse in questo periodo, superiore alle proprie forze e capacità. Ma la ricerca dell’unità, della comunanza degli obiettivi pur nella diversità di vedute, la rappresentazione del disagio sociale non può passare che attraverso un movimento di massa non esaltato e idealizzato nelle speranze o illusioni dei pochi, ma costruito, canalizzato, organizzato con pazienza, senza supponenza e senza sconti o tolleranze dannose fuori luogo.
L’assalto ai forni da parte degli affamati non solo è comprensibile ma legittimo! Bruciare l’auto o sfondare vetrine non è né legittimo né comprensibile e non crea neanche quel consenso che, solo, potrebbe legittimare anche un’eventuale rivoluzione popolare.


MIZIO