giovedì 23 gennaio 2014

IL SECOLO DEL LAVORO STUPIDO

Nel 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia sarebbe progredita abbastanza da permettere a paesi come il Regno Unito o gli Stati Uniti di approdare alla settimana lavorativa di quindici ore. Aveva ragione: in termini di tecnologia, saremmo perfettamente in grado di riuscirci. Eppure non è ancora successo. Anzi, semmai la tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più. A tale scopo sono stati creati lavori che sono di fatto inutili. Enormi schiere di persone, soprattutto in Europa e Nordamerica, trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili. I danni morali e spirituali che derivano da questa situazione sono profondi. È una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva. Eppure non ne parla praticamente nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo. Messi davanti alla scelta tra meno ore di lavoro e più giocattoli e piaceri, abbiamo collettivamente scelto i secondi. Il che porterebbe con sé anche una morale simpatica, non fosse che basta riflettere un attimo per capire che non può essere così.


È vero, dagli anni venti in poi abbiamo assistito alla creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie, ma sono pochissimi quelli che hanno a che vedere con la produzione e la distribuzione di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica costose. Allora cosa sono esattamente questi nuovi lavori? Un recente studio che confronta l’occupazione negli Stati Uniti tra il 1910 e il 2000 ci fornisce un’immagine chiara. Durante il secolo scorso, il numero di lavoratori impiegati come domestici, nel settore industriale e in quello agricolo è crollato. Parallelamente, “le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio” sono triplicati, passando da un quarto degli impieghi complessivi a tre quarti. In altre parole, i lavori produttivi, esattamente come previsto, sono stati in gran parte sostituiti dall’automazione (anche calcolando il numero di lavoratori industriali a livello mondiale, comprese le masse che sgobbano in India e in Cina, questi lavoratori non rappresentano neppure alla lontana la stessa percentuale di popolazione mondiale di una volta).

Ma anziché consentire una significativa riduzione delle ore di lavoro per rendere la popolazione mondiale libera di dedicarsi ai propri progetti, piaceri e idee, abbiamo assistito all’esplosione non tanto del settore dei “servizi”, quanto di quello amministrativo, arrivando a comprendere la creazione di intere nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, o l’espansione senza precedenti di settori come quello giuridico-aziendale, accademico, della amministrazione sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. E questi numeri non omprendono tutte quelle persone che per lavoro forniscono a queste industrie assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza, né – se è per questo – l’esercito di attività secondarie (come i toelettatori di cani o i fattorini che consegnano pizze tutta la notte) che esistono soltanto perché le altre persone passano tanto tempo a lavorare in tutte le altre.Sono mestieri che propongo di definire “lavori stupidi”.

È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare. E proprio qui sta il mistero: nel capitalismo, questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere. Certo, nei vecchi stati socialisti inefficienti come l’Unione Sovietica, dove il lavoro era considerato insieme un diritto e un sacro dovere, il sistema si occupava di inventare tutti i lavori necessari (ecco perché nei grandi magazzini sovietici ci volevano tre commessi per vendere un pezzo di carne). Ma questo, naturalmente, è proprio il genere di problema che la concorrenza di mercato dovrebbe correggere. Secondo le teorie economiche, perlomeno, l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno. Eppure, non si sa perché, succede lo stesso.

È vero, le grandi aziende operano spesso tagli spietati, ma licenziamenti e prepensionamenti colpiscono immancabilmente la classe delle persone che fabbricano, spostano, riparano e mantengono in funzione le cose. Per una strana alchimia che nessuno sa davvero spiegare, ultimamente il numero di passacarte salariati sembra aumentare, e sempre più lavoratori dipendenti si ritrovano, un po’ come i sovietici di una volta, a lavorare in teoria quaranta se non cinquanta ore alla settimana, ma lavorandone di fatto quindici proprio come previsto da Keynes, perché il resto del loro tempo serve per organizzare o partecipare a seminari motivazionali, aggiornare i profili facebook o scaricare roba. Chiaramente la spiegazione non è economica: è morale e politica. La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice, produttiva e con del tempo libero a disposizione è un pericolo mortale (pensate a quel che è cominciato a succedere quando negli anni sessanta ci si è avvicinati a una vaga approssimazione di questa cosa). E d’altra parte, l’idea che il lavoro sia un valore morale in sé, e che chiunque non desideri sottomettersi a un’intensa disciplina lavorativa per la maggior parte delle sue ore di veglia non meriti niente, torna straordinariamente comoda a molti.

Una volta, riflettendo sulla crescita apparentemente infinita degli incarichi amministrativi nei dipartimenti accademici britannici, mi è venuta in mente una possibile visione dell’inferno. L’inferno è un insieme di individui che passano il loro tempo a svolgere un compito che non amano e nel quale non sono particolarmente bravi. Per esempio, sono stati assunti perché bravissimi a fabbricare mobili, dopodiché scoprono di dover passare un sacco di tempo a friggere pesce. E nemmeno quello è un compito necessario: c’è solo un certo numero molto limitato di pesci che vanno fritti. Eppure tutti questi individui sono così ossessionati dall’idea che qualche collega possa passare più tempo di loro a fabbricare mobili, senza sobbarcarsi la sua quota di dovere nella frittura del pesce, che presto nel laboratorio si accumulano innumerevoli montagne di pesce inutile e mal cotto, e nessuno fa nient’altro.
A dire il vero, questa mi sembra una descrizione piuttosto precisa delle dinamiche morali che governano la nostra economia.
Mi rendo conto che simili argomenti possono suscitare alcune obiezioni, tipo: “Chi sei tu per stabilire quali lavori siano necessari? Ma poi cosa vuol dire necessario? Tu che insegni antropologia, che necessità soddisfi?” (in effetti un sacco di persone considererebbero l’esistenza del mio lavoro come la definizione stessa di “spesa sociale inutile”). Da un certo punto di vista, questo è ovviamente vero. Non esiste un modo per misurare oggettivamente il valore sociale.

Non avrei mai la presunzione di dire a una persona convinta di dare un contributo importante al mondo che, sotto sotto, non lo dà. Ma come la mettiamo con le persone convinte di fare un lavoro stupido? Qualche tempo fa ho riallacciato i contatti con un compagno di scuola che non vedevo da quando avevamo dodici anni. Mi ha sbalordito scoprire che nel frattempo lui era diventato prima un poeta, poi il cantante di un gruppo rock alternativo. Avevo sentito alcune sue canzoni, senza avere la minima idea di conoscere il cantante. È chiaramente una persona brillante, innovativa, il cui lavoro ha indiscutibilmente ravvivato e migliorato la vita di tante persone in tutto il mondo. Ciò nonostante, dopo un paio di album andati male, ha perso il suo contratto discografico e, sommerso dai debiti e con una figlia appena nata, ha finito, sono parole sue, per “imboccare la strada che sceglie in automatico tanta gente che non sa dove andare: la facoltà di giurisprudenza”. Oggi lavora come avvocato aziendale per un importante studio di New York. Lui per primo ammette di fare un lavoro del tutto privo di senso, che non fornisce nessun contributo al mondo e che, secondo lui, in realtà non dovrebbe esistere.

A questo punto ci si potrebbero fare tante domande, cominciando da: che cosa dice della nostra società il fatto che riesca a generare una domanda estremamente limitata di poeti-musicisti talentuosi, a fronte di una domanda apparentemente infinita di specialisti in diritto aziendale? (Risposta: se la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1 per cento della popolazione, allora quello che definiamo “mercato” riletterà ciò che loro, e nessun altro, considerano utile o importante). Ma ancor di più dimostra che di solito chi fa questi lavori alla in fine si rende conto che sono stupidi. Anzi, credo di non aver mai conosciuto un avvocato aziendale che non pensasse di fare un lavoro stupido. Lo stesso vale per quasi tutte le nuove industrie descritte poco sopra. Esiste un’intera classe di lavoratori salariati che, se li incontri a una festa e ammetti di fare un mestiere considerato interessante (l’antropologo, per esempio), si rifiuta anche soltanto di dirti che lavoro fa. Fategli bere due o tre drink, e si lanceranno in vere e proprie tirate su quanto inutile e stupido sia in realtà il loro lavoro.

Stiamo parlando di una violenza psicologica profonda. Come si può anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro, quando in cuor suo una persona ritiene che il proprio lavoro non debba esistere? Come può un fatto del genere non creare una rabbia e un risentimento profondi? Tuttavia, il talento tutto particolare della nostra società sta nel fatto che i suoi governanti hanno escogitato un modo, come nel caso dei friggitori di pesce, per garantire che questa rabbia venga indirizzata contro chi invece fa un lavoro sensato. Per esempio: nella nostra società sembra vigere una regola generale per cui più l lavoro di un individuo giova palesemente ad altre persone, minori sono le probabilità che questo lavoro venga pagato. Ripeto, è difficile individuare un parametro di misurazione oggettivo, ma per farsi un’idea basta semplicemente chiedersi: che succederebbe se quest’intera classe di persone scomparisse? Dite quel che volete di infermieri, spazzini e meccanici: è palese che, se dovessero sparire in una nuvola di fumo, gli effetti sarebbero immediati e catastrofici. Un mondo senza insegnanti e scaricatori di porto finirebbe presto nei guai, e anche un mondo senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe evidentemente peggiore. Non è però del tutto chiaro in che modo l’umanità soffrirebbe se dovessero svanire allo stesso modo tutti gli amministratori delegati di società d’investimenti, i lobbisti, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli analisti assicurativi, i lavoratori del telemarketing, gli ufficiali giudiziari o i consulenti legali (molti sospettano che potrebbe significativamente migliorare). Eppure, fatta salva una manciata di stimatissime eccezioni (i medici), la regola resiste sorprendentemente bene.

Cosa ancor più perversa, sembra circolare la difusa convinzione che sia giusto così. Ecco qual è uno dei punti di forza segreti dei populisti di destra. Lo si vede quando fomentano il rancore contro i dipendenti della metropolitana che paralizzano Londra per il rinnovo del contratto: il fatto stesso che i dipendenti della metropolitana siano in grado di paralizzare Londra è la riprova che il loro lavoro è necessario, ma a infastidire la gente sembra sia proprio questo. È ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani stanno riuscendo con molto successo a mobilitare il risentimento contro gli insegnanti o contro gli operai dell’industria dell’automobile (e non, dettaglio significativo, contro chi amministra le scuole o contro i dirigenti che crea no i problemi) a causa di stipendi e benefit che sembrano eccessivi. È come se gli stessero dicendo: “Ma voi insegnate ai bambini! O costruite le macchine! Fate dei lavori veri! E avete anche la faccia tosta di aspettarvi delle pensioni e un’assistenza sanitaria da classe media?”.
Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio. I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente. Gli altri si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla, e che ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori eccetera) – in particolare con le loro personificazioni economiche – ma che al tempo stesso covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale. Non è un sistema progettato in modo conscio: è emerso da quasi un secolo di tentativi empirici. Ma è anche l’unica spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non lavoriamo tutti quanti solo tre o quattro ore al giorno.


David Graeber è un atropologo e attivista statunitense. È uno dei protagonisti del movimento Occupy Wall Street. Ha scritto, Debito: I primi 5000 anni -Il Saggiatore e Oltre il potere e la democrazia -Elèuthera 2013

mercoledì 22 gennaio 2014

ANCORA IL LUPO CATTIVO?

La commedia all'italiana di lupi, cani, cinghiali e... fantasie

Negli ultimi tempi è riesplosa in parte dell'Italia settentrionale, e soprattutto in Piemonte, Liguria e Toscana, un'accanita "caccia alle streghe" alimentata da una serie di incredibili storielle, a confronto con le quali le favole che le nonne d'una volta narravano la sera ai bambini non potrebbero che impallidire.
Giornalisti alla ventura hanno rispolverato la leggenda extra-metropolitana inestinguibile dei lupi lanciati da aerei o da elicotteri misteriosi, magari con il paracadute, che fa il paio con quella dei sacchetti pieni di vipere catapultati nelle campagne dai malvagi di turno. Un modo assai semplice di diffamare chi difende la natura, e di reclamare a ogni passo soccorsi e finanziamenti, magari invocando lo "stato di calamità".
Intendiamoci: non c'è dubbio che i lupi siano carnivori predatori, e che episodi di attacchi alle greggi e agli animali domestici possano verificarsi: ma dove il bestiame viene ben custodito, con ricoveri notturni o reti elettrificate, e soprattutto con validi cani da pastore, la quantità dei danni risulta alquanto ridotta: e va comunque indennizzata prontamente e adeguatamente. Ma non occorre essere grandi esperti, per capire che i più seri problemi alle attività agropastorali derivano oggi da ben altri fattori. Anzitutto, dal randagismo canino e dall'ibridazione tra i cani abbandonati e qualche lupo disperso dal branco, fenomeni tutti provocati dall'uomo. Per non dire della scriteriata, ripetuta introduzione di cinghiali alloctoni, provenienti dall'Europa centro-orientale, capaci di riprodursi e diffondersi a ritmi un tempo impensabili.
Chiunque ammetta, con un minimo di onestà intellettuale, questa semplice evidenza, non potrà allora non riconoscere che la presenza sul territorio di branchi di lupi lasciati tranquilli può costituire il metodo migliore, e certamente il meno dispendioso, per arginare le conseguenze di questi gravi errori umani. E non solo perché i lupi contengono l'espansione dei cinghiali, ma anche perché li spostano continuamente, tenendoli in movimento ed evitando che i loro danni colpiscano sempre gli stessi sfortunati agricoltori.
D'altro canto è ben noto che i cani randagi, vaganti e rinselvatichiti (tre categorie simili, spesso confuse ma ben distinte sul piano eco-etologico) ammontano certamente a ben più di un milione in Italia: ma se dovessimo dar credito alle voci e alle idee correnti, sarebbe difficile trovare qualcuno disposto a riconoscere il loro pesantissimo impatto sul bestiame domestico, quasi si nutrissero soltanto di aria fresca e di tenere erbette. La ragione è molto semplice: dando sempre la colpa al lupo, il danno risulterà meglio dimostrato, e quindi l'indennizzo sarà più probabile.
Anche i ridicoli piani di abbattimento d'un certo numero di lupi, in base a programmi redatti a tavolino da baronìe accademiche furbastre a caccia di finanziamenti, non farebbero che aggravare la situazione, disgregando i branchi, isolando gli individui subadulti e provocando tra i sopravvissuti maggior riproduzione, o addirittura causando occasionali fenomeni di ibridazione.
Resta tuttavia difficile comprendere come mai istituzioni, parchi, riserve, università, associazioni ambientaliste e media non abbiano mai pensato di rivolgersi per chiarimenti al Gruppo Lupo Italia, che dispone in proposito della più ampia esperienza, memoria storica e documentazione, avendo dovuto affrontare e risolvere per decenni, nel modo più rapido ed efficace, tutti questi problemi, non certo nuovi né sconosciuti.
Cancellare la memoria storica, non è certo un mistero, si rivela sempre frutto di ignoranza e miopia, e fonte di enormi errori che possono portare a conseguenze disastrose per tutti. Ma nell'Italia oggi in declino, questo sembra purtroppo un deplorevole costume sempre più diffuso.


Franco Tassi

venerdì 10 gennaio 2014

CAMBIARE NOI PER CAMBIARE TUTTO


E’ molto tempo, almeno per le mie abitudini, che non scrivo qualcosa che non sia attinente a questioni  politiche o sociali. Perché è vero che la politica è importante, soprattutto oggi che ha permeato qualsiasi aspetto anche il più intimo e personale, e che interessarsene in modo critico e partecipe è fondamentale. Ma quando la sera si torna a casa dopo il lavoro o un impegno politico e ritrovi i tuoi affetti, i problemi, le questioni non risolte magari, ti fermi a fumare e…alzando gli occhi al cielo, le tue certezze si sciolgono rapidamente.
Riemergono i dubbi, i mille perché, i tarli che nel frattempo hanno continuato il loro lavoro di demolitori di corazze, eterna dannazione ed estasi dell’umana esistenza.
Chi sono, chi siamo, che facciamo su quest’astronave lanciata a folle velocità nel nulla o nel tutto assoluto?
In mille modi ho cercato risposte, in mille mi hanno proposto le loro.
Da tutti e da tutto ho preso e appreso qualcosa, ma è stato molto di più quel che ho lasciato.
Big bang, Dio creatore, Energia pura, Dimensioni parallele, Motore primo, esperimento alieno. Tutte potenzialmente logiche, tutte possibili, ma tutte non dimostrabili, tutte confutabili e tutte bisognose di un atto fideistico per l'adesione.
Però, ognuna di queste ha qualcosa in comune: fato, destino, Karma, scelta divina. Ognuno di noi sembra seguire un suo sentiero che pare disegnato esclusivamente per lui e le cui tappe, gli ostacoli, le soste ristoratrici sono proprio quelle di cui abbisogna, anche se non è in grado di valutarne subito la validità.
Io ho seguito il mio tra ostacoli, gioie, certezze abbandonate, esperienze, ma se guardo indietro non scorgo rimpianti.
Errori ne ho fatti, e tanti, ma non fino al punto di dover dire: “Se non l’avessi fatto…”.
Se non l’avessi fatto, non sarei l’io di oggi, sarei altro e non potrei mai sapere se sarei stato migliore o peggiore.
Questo vuol dire una sola cosa che io (noi) in questo tempo e in questa dimensione non potremmo essere diversi da quel che siamo, ci piaccia o non ci piaccia! Ed ogni sforzo che valga veramente la pena di fare è quello di migliorare quel poco o tanto che è migliorabile in ognuno di noi, capendo che è solo attraverso la presa di coscienza della nostra unica e ineluttabile realtà, potremo affrontarla e pensare di cambiarla.
In certi momenti sembra proprio che la vita si diverta a frapporre ostacoli, dolori, sconfitte, consegnando le nostre vite ad una passiva rassegnazione o ad un’ altrettanto negativa rabbiosa reazione contro tutto e tutti.
Incolpiamo il fato, i nostri parenti, gli amici, il mondo intero, ma, quasi mai, rivolgiamo lo stesso critico atteggiamento nei nostri confronti. Eppure ci crediate o no è proprio quello che riuscirebbe a darci la chiave per superare qualitativamente le prove dell’esistenza.
La storia e l’esperienza ci insegnano che la rabbia, l’odio, il conflitto permanente generano sempre e comunque ulteriori mostri.
La competizione e lo scontro non sono un destino ineluttabile scritto nel nostro DNA, c’è la possibilità di scrivere anche altro: comprensione, collaborazione, condivisione. la “pietas”, non quella pelosa aggiustacoscienze che troppo spesso si vede, ma quella reale, empatica e fattiva che cerca il miglioramento di tutto il genere umano migliorando se stessi.
Ecco in questo la chiave della spiegazione della necessità dell’ impegno, sia esso sociale, politico, culturale o quant’altro, ed ecco perché non riesco a comprendere come molte persone, pur splendide, limitino le proprie potenzialità creatrici in un ambito ristretto e confinato da regole, precetti, divieti, dubbi che diventano muri invalicabili.
Le gabbie che la società ci costruisce intorno sono di cartapesta se siamo liberi, sono di acciaio inox se siamo prigionieri di noi stessi.
L’unica lotta che valga la pena di fare è quella contro quella parte di noi che ci vuole prigionieri, indifesi e incapaci di lottare, trovando in questo giustificazione e alibi a sufficienza per l’inazione che, detto fra noi, è molto peggio delle reazioni  rabbiose di cui si parlava prima.
Ad maiora


MIZIO

martedì 7 gennaio 2014

INTERVISTA A RODOTÀ. RIFORME, C’È CHI TENTA NUOVE FORZATURE


StefanoR

Intervista. Stefano Rodotà: pareggio in bilancio, lavoro, beni comuni. L’agenda 2014 della «via maestra». Fallita la modifica dell’art.138, ora il rischio è che la fine del bicameralismo e la legge elettorale cambino la forma di governo. Senza dirlo. Non aspettare le motivazioni della Corte? Un suicidio

Il 2013 è stato anche l’anno del movi­mento nato intorno al docu­mento “La via mae­stra” (Rodotà, Lan­dini, Car­las­sare, Zagre­bel­sky, Ciotti) e alla mani­fe­sta­zione di Roma del 12 otto­bre, che chie­deva la piena attua­zione della Costi­tu­zione e diceva no alla modi­fica dell’art. 138 della Carta – che allora veleg­giava nelle camere con il vento in poppa — per pro­ce­dere alle riforme. Di que­sto movi­mento il costi­tu­zio­na­li­sta Ste­fano Rodotà — che a aprile, alla vigi­lia del suo 80esimo com­pleanno, viene scelto come pre­si­dente della Repub­blica dal Movi­mento 5 stelle ma più tardi fini­sce nel mirino di Grillo — è stato fra i primi ispi­ra­tori e protagonisti.

Pro­fes­sore Rodotà, la modi­fica del 138 alla fine è stata riti­rata. La ‘via mae­stra’ ha vinto. Ma un po’ a tavo­lino: è fra­nata la mag­gio­ranza che la soste­neva. Mag­gio­ranza che infatti, dice­vate voi, non era affi­da­bile per le riforme.

Quel docu­mento e soprat­tutto la mani­fe­sta­zione, che ha assunto un signi­fi­cato al di là delle nostre aspet­ta­tive, hanno con­tri­buito a creare una cul­tura dif­fusa che ha via via dele­git­ti­mato l’iniziativa di riforma per come la con­ce­piva il governo. Quando le con­di­zioni per andare in quella dire­zione si sono fatte più dif­fi­cili in effetti c’è stata una nostra vit­to­ria a tavo­lino: governo e mag­gio­ranza si sono arresi. E senza com­bat­tere: anche per­ché si sareb­bero tro­vati un’opinione pub­blica ormai con­vinta che quella strada met­teva in discus­sione pas­saggi essen­ziali del pro­cesso demo­cra­tico. Ma la via mae­stra va avanti: ogni giorno il rispetto della Costi­tu­zione diventa una bus­sola essen­ziale per la vita demo­cra­tica. Basta vedere cosa è acca­duto negli ultimi giorni, che non ha pre­ce­denti nel nostro paese. Il governo è stato costretto a riti­rare un decreto sul quale la mag­gio­ranza si era impe­gnata fino in fondo. È il segno di un sistema impaz­zito per­ché si è allon­ta­nato dalle logi­che costi­tu­zio­nali, pri­gio­niero di inte­ressi par­ti­co­lari e di un’idea stru­men­tale delle isti­tu­zioni, come già sul 138. Oggi que­ste distor­sioni sono dif­fuse: l’uso della decre­ta­zione d’urgenza, l’inserimento in un decreto di qua­lun­que cosa.

Le riforme, seb­bene ridi­men­sio­nate, restano nell’agenda del governo.

Oggi si parla di ridu­zione dei par­la­men­tari e di fine del bica­me­ra­li­smo per­fetto. Ma biso­gna fare atten­zione: una forte ridu­zione del numero dei par­la­men­tari senza cor­ret­tivi inci­de­rebbe sulla rap­pre­sen­tanza, ovvero ridur­rebbe la pos­si­bi­lità di essere rap­pre­sen­tati. E quando si dice ‘la sera del voto biso­gna sapere chi sarà il pre­si­dente del con­si­glio’, si rischia di arri­vare sur­ret­ti­zia­mente a quella modi­fica della forma di governo che si dice di aver abban­do­nato. È irra­gio­ne­vole che nel Pd si voglia pre­sen­tare una riforma elet­to­rale prima che si cono­scano le moti­va­zioni della Corte costi­tu­zio­nale. È un’idea bal­zana: cosa avver­rebbe se una volta incar­di­nata la riforma in com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali venisse fuori una moti­va­zione in con­tra­sto con il nuovo testo? Si avrebbe una dele­git­ti­ma­zione del testo e una nuova occa­sione di con­flitto. Un altro segno di impaz­zi­mento del sistema.

A pro­po­sito della sen­tenza sul Por­cel­lum, il dibat­tito ha inve­stito pesan­te­mente la Con­sulta che, si è detto, ha dele­git­ti­mato tre par­la­menti eletti con quel sistema.

Que­sto dibat­tito e que­ste alte grida mi sba­lor­di­scono. Non so se l’elemento pre­va­lente sia la mala­fede o l’ignoranza. Ho sen­tito per­fino docenti uni­ver­si­tari soste­nere che nella Costi­tu­zione non c’è una norma che nega quel pre­mio di mag­gio­ranza: ma allora ‘il voto è eguale’ che signi­fica? Leg­ge­remo le moti­va­zioni, ma la Corte ha detto che il pre­mio di mag­gio­ranza così come pre­vi­sto dal Por­cel­lum è ille­git­timo. Non ha sta­bi­lito un pre­mio indi­ca­bile, né ha fatto rivi­vere il Mat­ta­rel­lum. Impu­tarle di aver for­zato la mano per il ritorno al pro­por­zio­na­li­smo senza limiti non si può. Il ceto poli­tico non è in grado di misu­rare le pro­prie azioni, e quando que­ste sono valu­tate incom­pa­ti­bili con la Costi­tu­zione se la prende con il giu­dice. La Corte ha detto che le leggi elet­to­rali deb­bono essere con­formi alla Carta. Quasi una bana­lità, che però è incom­pa­ti­bile con l’incultura che cir­cola. Ora il par­la­mento deci­derà auto­no­ma­mente. Ma ripeto: aspetti le moti­va­zioni della Corte, si tratta di poche set­ti­mane. Diver­sa­mente sarebbe un modo sui­cida di andare avanti: si for­ni­reb­bero argo­menti enormi a chi vorrà con­tra­stare una legge che entrasse in con­flitto, anche in parte, con quello che la Corte deciderà.

Crede, come il pre­si­dente Napo­li­tano, che il pro­por­zio­nale sia supe­rato dal refe­ren­dum del ’93?

Il refe­ren­dum ha dato un’indicazione, ma non si può soste­nere che abbia intro­dotto un vin­colo costi­tu­zio­nale con­tro il pro­por­zio­nale. I costi­tuenti, pro­por­zio­na­li­sti, furono lun­gi­mi­ranti e non vol­lero costi­tu­zio­na­liz­zare la legge elettorale.

Le chiedo ancora un giu­di­zio sulla reto­rica delle riforme di governo e mag­gio­ranza. La modi­fica del 138 era, dice­vano, irri­nun­cia­bile; chi vi si oppo­neva era un con­ser­va­tore. Ma la modi­fica alla fine è sal­tata, e senza una parola di autocritica.

Prima della sen­tenza della Corte noi fir­ma­tari dell’appello “la via mae­stra” ave­vamo scritto una let­tera pub­blica inti­to­lata “l’urgenza e l’indecenza”. L’indecenza era il ten­ta­tivo di andare avanti sulle riforme con for­za­ture anche dopo che era venuta meno la pos­si­bi­lità poli­tica di farlo. La reto­rica delle riforme isti­tu­zio­nali con­ti­nua ad essere usata, ed è peri­co­losa per­ché fini­sce per legit­ti­mare i ten­ta­tivi di for­za­ture. Di fronte alla cla­mo­rosa scon­fitta di chi aveva soste­nuto che la modi­fica del 138 ci avrebbe por­tato chissà dove, chiedo a Letta un po’ di misura. Anche per­ché c’è un fatto nuovo: que­sto par­la­mento, dice la Corte, nasce con un vizio di costi­tu­zio­na­lità, la sua legit­ti­ma­zione poli­tica – sot­to­li­neo poli­tica — a met­tere le mani pesan­te­mente sulla Costi­tu­zione non è più piena.

È la tesi del Movi­mento 5 stelle, e cioè che il par­la­mento non è legit­ti­mato a fare le riforme?

Dei 5 stelle o no, noi l’abbiamo detto prima di tutta la bagarre. Per fare le riforme oggi ci vuole pru­denza. E un con­senso largo.

Letta infatti pro­mette che comun­que vada, le riforme non saranno appro­vate dai due terzi del par­la­mento, per dare in ogni caso la pos­si­bi­lità di svol­gere il refe­ren­dum confermativo.

È apprez­za­bile ma non basta. Peral­tro, indi­pen­den­te­mente dalla sen­tenza della Corte, è opi­nione dif­fusa — anche nella mag­gio­ranza — che l’orizzonte poli­tico di que­sta legi­sla­tura è comun­que ridotto al 2015, anzi­ché essere il 2018. Un altro para­me­tro costi­tu­zio­nale sal­tato. Non dico che Letta debba durare fino al 2018, ma regi­stro un altro tas­sello della deco­stru­zione costituzionale.

Lei, pro­fes­sore, crede che nel 2014 le riforme si faranno davvero?

Non fac­cio pre­vi­sioni. Ma biso­gna impe­dire che con la fine del bica­me­ra­li­smo per­fetto e con la nuova legge elet­to­rale venga modi­fi­cata sur­ret­ti­zia­mente la forma di governo. Oggi le pos­si­bi­lità cul­tu­rali e poli­ti­che per impe­dirlo ci sono, e per­so­nal­mente, e con la schiera di volen­te­rosi della via mae­stra, cer­che­remo di evi­tare che succeda.

Arri­viamo al 2014. Un gruppo di intel­let­tuali, fra cui lei, ha fatto un appello – pub­bli­cato sul  mani­fe­sto  – con­tro le poli­ti­che del rigore e il pareg­gio di bilan­cio in Costi­tu­zione, il nuovo art.81. Sarà que­sto il vostro nuovo fronte?

La via mae­stra è stato un grande suc­cesso e ha deter­mi­nato una forte e varie­gata domanda che impone una rifles­sione. La tra­du­zione che cir­cola ancora è che que­sto suc­cesso sug­ge­ri­sce se non un par­ti­tino, almeno una lista alle euro­pee. Non è così. Cer­che­remo di creare una mobi­li­ta­zione della “coa­li­zione sociale”. E una delle ragioni del ritardo nel farci sen­tire — che fine avete fatto?, ci chie­dono in tanti — è stato darci un minimo di strut­tura orga­niz­za­tiva. Ma senza alcuna cen­tra­liz­za­zione, anzi si è già deter­mi­nata una forma di decen­tra­mento. Ora lavo­riamo su tre fronti. Il primo è l’articolo 81 e le leggi attua­tive, intorno al quale costruire un’azione col­let­tiva, anche refe­ren­da­ria. Secondo, l’abrogazione dell’art.8 del famoso decreto del 2011 del governo Ber­lu­sconi, poi ripreso dal governo Monti, che con­sente la con­trat­ta­zione decen­trata anche in deroga alla legge. Umberto Roma­gnoli sul  mani­fe­sto  è stato il primo che ha messo in evi­denza la ridu­zione pri­va­ti­stica del diritto del lavoro, una regres­sione spa­ven­tosa dal punto di vista cul­tu­rale e una redi­stri­bu­zione del potere a danno dei lavo­ra­tori e del sin­da­cato, in una fase in cui la crisi di per sé enfa­tizza il potere impren­di­to­riale. Legato a que­sto c’è la legge sulla rap­pre­sen­tanza: oggi molti dicono sì, ma si tratta di vedere come farla; e il red­dito minimo, o di cit­ta­di­nanza, o uni­ver­sale, altra que­stione ine­lu­di­bile, molto con­tro­versa a sini­stra e distorta dalla con­trap­po­si­zione sche­ma­tica fra red­dito e lavoro. Poi c’è il discorso dei beni comuni con­cre­ta­mente legato all’attuazione piena del refe­ren­dum sull’acqua; una delle com­po­nenti impor­tanti della via mae­stra ha già preso ini­zia­tive, a Milano ci sarà un ricorso al Tar con­tro il cri­te­rio di deter­mi­na­zione delle tariffe da parte dell’autorità com­pe­tente. È un tema di bat­ta­glia poli­tica: nel cosid­detto decreto Salva Roma era stato intro­dotto un emen­da­mento che obbli­gava il comune a pri­va­tiz­zare l’Acea. Anche qui ci col­le­ghiamo all’Europa: sono state pre­sen­tate a Bru­xel­les le firme di un’iniziativa dei cit­ta­dini per chie­dere alla Com­mis­sione di sta­bi­lire le carat­te­ri­sti­che del ser­vi­zio idrico euro­peo. E infine ripren­de­remo il tema della rap­pre­sen­tanza e delle ini­zia­tive dei cit­ta­dini: cer­che­remo di ren­dere vin­co­lante per il par­la­mento l’obbligo di discu­tere e votare in aula le leggi di ini­zia­tiva popo­lare, che tal­volta rac­col­gono cen­ti­naia di migliaia di firme ma fini­scono in archivio.

Ma dun­que la via mae­stra non por­terà i suoi rap­pre­sen­tanti nelle liste per il par­la­mento europeo?

Fatte salve le scelte indi­vi­duali, e so che tanti si muo­vono in varie dire­zioni, per­so­nal­mente penso che tra­durre que­sto lavoro di rico­stru­zione sociale nella par­te­ci­pa­zione a una lista non è la scelta da fare. È la mia posi­zione, natu­ral­mente. Altro potranno essere dichia­ra­zioni sin­gole o di gruppi a soste­gno di qual­che candidato.


Daniela Preziosi

LA DEVASTAZIONE NON DEVE PASSARE


Adesso non sarà più tutto come prima, inizia la battaglia legale e il fronteggiamento delle nostre comunità contro i devastatori!

Informiamo che il 3/1/2014 la delibera CIPE del 2/8/2013 è stata pubblicata nella GU, di seguito il link:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/01/03/13A10658/sg

Abbiamo 30 gg per la presentazione del ricorso al TAR, PQM ci siamo prontamente attivati con l'avv. Valentina Stefutti.

Come saprete, abbiamo scelto lo studio dell'avv. sopra menzionato, perché ci da garanzie di professionalità, visto le numerose cause affrontate, anche con successo, su tematiche simili alle nostre e per essere non coinvolto con controparti politiche (PD/NCD/SC/FI) che potrebbe indebolire, se non eludere, l'efficacia del ricorso.

Visto che siamo autorganizzati in Nodi territoriali, come abbiamo fatto per gli incontri precedenti, al fine di trovare una pozione logistica "nella terra di mezzo" è convocata la RIUNIONE URGENTE dei Nodi NOcorridoio/NObretella per VENERDI 10 Gennaio 2014 ore 19,00 presso il Ristorante "Madime" in Via Pontina Vecchia, Km 34,200 incrocio con Via Laurentina (Loc. Caronti - Ardea), con all'odg:

1) Illustrazione linee guida del ricorso al TAR;
2) iniziative per l'autofinanziamento.

Con l'occasione rinnoviamo l'invito alla massima partecipazione, visto la nuova situazione che ci troviamo ad affrontare.

Ricordiamo l'importanza del sostegno alla CASSA DI MUTUO SOCCORSO per affrontare le spese del ricorso!


Concludiamo, ricordando che L'UNITA' delle nostre comunità è fondamentale per la difesa della nostra terra e della qualità della vita. Visto che l'ingiustizia, è diventata legge, promulgata da politicanti subalterni ai poteri forti della devastazione: resistere è un dovere, con tutti i mezzi a nostra disposizione!

venerdì 3 gennaio 2014

IL CAPODANNO


Foto: Il Capodanno

di Antonio Gramsci, 1° Gennaio 1916 su l’Avanti!, edizione torinese, rubrica “Sotto la Mole”

"Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.

Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca."


Scritto da: Qualcosa di Sinistra in Parola d'Autore, Storia 31 dicembre 2013

di Antonio Gramsci, 1° Gennaio 1916 su l’Avanti!, edizione torinese, rubrica “Sotto la Mole”

"Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.

Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.


Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca."
da: Qualcosa di Sinistra

giovedì 2 gennaio 2014

AUGURI



Auguri e speranza d’ogni bene
come ad ogni anno si conviene
Muore il trentuno, si rialza il primo,
fattosi vecchio rinasce bambino.
Ma la speranza, ne converrete,
non placa la fame e nemmeno la sete.
Quella passata non è ancor finita,
continua la lotta, e che vinca la vita!


MIZIO