mercoledì 27 novembre 2013

GIOCHI PERICOLOSI…..




Molti di voi sicuramente conoscono il gioco dell’impiccato, si tratta di indovinare una parola scelta da uno dei giocatori attraverso una serie di domande, ogni domanda sbagliata contribuisce a completare il disegnino di un impiccato, se si indovina la parola prima della conclusione del disegno si è salvi, se no si muore impiccati.
Gioco innocente che però metaforicamente mette i bambini a contatto con l’idea della morte, anche se figurata, e comincia a far capire loro la caducità e la precarietà dell’umana esistenza, anche se, essendo un gioco, se si perde, si strappa il foglio e si ricomincia.
“Ciò che è in basso è come ciò che è in alto / e ciò che è in alto è come ciò che è in basso..(Hermes Trimegisto “Leggi ermetiche”).
Questo affermava nell’antica Grecia il fondatore della corrente filosofica detta “Ermetica”, e nonostante i 3.000 anni passati sembrerebbe che tale legge ancora domina l’uomo e la sua vita. Passi per le scelte filosofiche o religiose che attengono a criteri di coscienza individuali e insindacabili, ma che questo continui ad essere fatto proprio da chi regge i destini del mondo per imporre il proprio dominio sugli esseri umani è francamente fuori tempo, fuori logica e profondamente ingiusto.
Tutto questo per dire che la pantomima della crisi, del debito pubblico e dei sacrifici richiesti agli  italiani, somiglia molto al gioco dell’impiccato. C’è un giocatore, l’Europa (Germania, BCE) che stabilisce le regole del gioco e a cui l’Italia decide di partecipare nel ruolo del potenziale impiccato. Quindi si attrezza per rispettare le regole imposte con provvedimenti di natura fiscale, di tagli alla spesa, di destrutturazione dello stato sociale, di privazioni di diritti, e ogni volta sottopone il tutto all’esame del titolare del gioco. Il quale con il ghigno cinico tipico dei potenti di ogni epoca dice: “Sbagliato” e aggiunge un particolare, in questo caso sanzioni, al disegnino dell’impiccato.

Ad occhio e croce all’ Italia non sono rimaste molte possibilità per evitare l’impiccagione completa, realisticamente ne è rimasta una sola. Smettere, per il momento, di giocare, ma i nostri giocatori (Governo) saranno in grado di fare ciò?
Quello di Monti prima e quello di Letta adesso sicuramente no, per questo è necessario che cambino anche i giocatori, che vengano scelti dagli italiani e non imposti dall’alto. Quindi riforma elettorale subito elemento imprescindibile ma altrettanto imprescindibili programmi chiari e alternativi a quelli seguiti finora che contemplino anche il cambio delle regole e, se necessario, l’abbandono definitivo del gioco, scegliendo altri compagni e altri giochi.
Difficile? Sicuramente, ma terribilmente necessario!


MIZIIO

martedì 26 novembre 2013

PASSEGGIATE..: CAMPAGNA ROMANA E PIANURA PONTINA

Ferdinand Grzegorzewski, (1821-1891) latinizzato in Ferdinand Gregorovius, è stato uno storico e medievalista tedesco - di famiglia di origine polacca della Prussia Orientale - famoso per i suoi studi sulla Roma medievale.


Provate con gli occhi di oggi a percorrere le stesse strade e ridisegnare lo stesso paesaggio, non riuscirete neanche ad immaginarlo, tante e tali sono state le devastazioni, le offese al territorio visto solo ed esclusivamente come risorsa da sfruttare per speculazione edilizia e ricettacolo di immondizia e veleni di varia natura e provenienza.
E ancora si continua, la follia distruttrice e cieca del "progresso" senz'anima e coscienza propone sempre nuovi scenari. L'autostrada Roma.Latina è uno di questi, l'istallazione e ampliamento continuo di impianti per il trattamento dei rifiuti concentrati in aree adiacenti a insediamenti abitativi ne è un altro. la centrale Turbogas un altro ancora e mille altri...
Se Gregorovius ripercorresse oggi gli stessi itinerari, penserebbe di aver sbagliato strada.

MIZIO  



Dalla sua opera “Passeggiate per l’Italia”:


Ho percorso tutte le più belle regioni d'Italia, ho vagato per le famose pianure di Agrigento e di Siracusa, ma nonostante lo scintillio di colori di queste regioni meridionali, confesso di non aver mai provato un'impressione tanto profonda come la campagna romana ed il Lazio hanno saputo suscitare in me. Queste contrade mi son divenute così familiari quanto quelle della mia patria, avendole dovute studiare profondamente per la mia storia di Roma nel medio-evo, e visitandole mi sono apparse sempre nuove e piene di grandezza. Quando poi me ne allontano, provo ardente il desiderio di rivederle. Non ho mai potuto contemplare da Monte Mario la valle che si apre fra Palestrina e Colonna verso la campagna latina, senza sentirmici attratto come da un'imperiosa seduzione. E' possibile che questo paesaggio debba ai ricordi storici gran parte del fascino irresistibile che esercita sul visitatore, ma anche senza di quelli son persuaso che sedurrebbe per il carattere nobile e grandioso che la natura gli ha impresso. Alcuni luoghi hanno un aspetto del tutto mitologico, come, per esempio, la pineta di Castel Fusano, presso Ostia, con i suoi alberi giganteschi che si stendono sino al mare, e la larga foce del Tevere, che la fantasia si sente portata a popolare di figure leggendarie e favolose. Altre regioni invece hanno un carattere del tutto lirico, altre ancora epico, omerico, come Astura e il capo Circeo. Nessuna regione però ha un carattere storico, solennemente tragico, al pari della campagna di Roma. Essa appare come il teatro più grande della storia, come la scena dell'universo. Nessuna descrizione poetica, nessun pennello di genio, per quanto molti artisti di valore vi si siano provati, saprebbe dare un'idea della bellezza grandiosa e superba della campagna del Lazio a chi non l'abbia veduta e sentita. Là nulla v'è di romantico, nulla di fantastico; tutto è silenzioso, grandioso, di una bellezza imponente e severa; dinanzi a quello spettacolo della natura lo spettatore intelligente si sente penetrato dall'impressione profonda e grave che proverebbe davanti alla statua di Giunone di Policlete…..


…Finalmente giungemmo al termine della foresta, sul versante sud-ovest del monte, ed io provai l'impressione di un uomo condotto con gli occhi bendati dinanzi ad uno spettacolo meraviglioso, cui sia stata d'un tratto tolta la benda. Dinanzi a me apparve luminosa ai nostri piedi la pianura marittima, le paludi pontine, pervase di varie e strane tinte, più lontano il mare, dorato dal sole, le isole di Ponza, perdute in mezzo alle onde brillanti; il capo Circeo, la torre solitaria d'Astura, la Linea Pia e il castello di Sermoneta. Uscendo dalle ombre della foresta, l'aspetto di questo panorama è uno dei più belli che l'Italia presenti. Su di me ha prodotto un'impressione così forte che non ho trovato sul momento, e neppure ora so trovare, parole atte ad esprimerla. Mi si era vantata assai a Roma la bellezza di questo colpo d'occhio e mi si era detto che non avrei potuto trovare nulla di più bello della traversata dei monti Volsci e della vista di lassù delle paludi pontine e del mare; nulla di più vero. Io consiglio vivamente a tutti quelli che visitano i paesi romani, questa magnifica escursione…


…Chi non ha mai attraversato le paludi Pontine per recarsi per la via Appia a Terracina e crede che siano delle putride e nauseabonde maremme, s'inganna. Vi sono, è vero, terreni paludosi e stagni in quantità, ma nascosti da boschi, nei quali errano cinghiali, istrici, cervi, bufali e buoi quasi selvaggi. Nei mesi di maggio e di giugno la regione pare quasi un mare di fiori....



...Più ci si appressa al mare e più i boschi si allargano, e da Norba si vedono distintamente sino al capo Circeo. Si seguono dalla foce del Tevere, da Ostia, da Ardea, da Nettuno sino a Cisterna e Terracina. In mezzo a quei boschi vi sono dei tratti liberi, dove vengono raccolti gli armenti e dove abitano i coltivatori, come, per esempio, Conca, Campo Morto, Campo Leone, Tor del Felce ed altre località. Là, nell'interno, dove i boschi cessano, esistono delle vaste praterie, e più in là dei campi coltivati, e quindi la via Appia, restaurata da Pio VI.....




giovedì 21 novembre 2013

L'ALLUVIONE SARDA E I FANTOCCI IMPICCATI

Sostituite il nome del paese, in questo caso Olbia, e le stesse considerazioni saranno valide per il 90% del territorio italiano.



Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d'acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l'elenco di piaghe descritte nel Libro dell'Esodo, gli ha dato la definizione di "piena millenaria". La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d'acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie.
I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l'Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e "prevalente" che sta a monte.
È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d'asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di "sviluppo" che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia.
Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova? Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente dell'abusivismo: dove un tempo c'erano stagni e dove scorrevano magri torrenti.
Le "piene millenarie", proprio perché hanno memorie lunghissime, ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti.
Solo che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola d'arte, senza alvei intombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero dighe prima di cedergli il passo.
Olbia è crescuta in fretta, è un piccolo emblema dell'ideologia della crescita libera che ripudia qualsiasi pianificazione. Il PIL veniva prima di tutto, e perciò si doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema idraulico artificiale che si sovrappone a un sistema idraulico naturale. Olbia però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza criterio. L'onda del PIL era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All'acqua della città, incanalata senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l'acqua della montagna, e tutto è stato devastato.
Ora la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che snocciolano compunti i milioni stanziati per l'emergenza: Enrico Letta 20 milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev'essere lo stesso Cappellacci che ha guidato un'amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico. Certo, quei milioni non sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17 (diciassette) "piani di risanamento". Cioè: prima si lasciava fare, senza permessi, poi si condonava, si "risanava", senza nemmeno completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero, costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a quel pezzo di territorio.
Facile strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi c'erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale sul "rischio alluvione". La prevenzione non fa notizia, non porta voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d'apertura di Repubblica. È solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.
Negli anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello sviluppo e della crescita, e al diavolo i geologi.
Proprio un geologo, Fausto Pani, sul sito sardiniapost.it, in veste di autore del PAI (Piano stralcio per l'assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali, si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «solo pochi giorni fa i sindaci interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano ancora allo stesso modo».
Infatti il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall'alluvione è Terralba, nell'oristanese. Ho visto in TV il sindaco di centrosinistra Pietro Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non andavano bene a una parte della gente di Terralba. Lo scorso 15 giugno un comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici che limitano lo sviluppo del territorio.»
Uno dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese». Alle magnifiche sorti e progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso asciutto che per un giorno è diventato l'Orinoco.
Gli impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli. Parafrasando una vecchia storia, l'ultimo sviluppista è disposto a vendere la corda con la quale verrà impiccato.
Adesso la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al PIL. È forse cinico dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel crescere, il PIL dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta del vero benessere.
Quel pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una scelta. La scelta non è "costruire oppure no": è semmai cosa costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.


Pino Cabras

venerdì 15 novembre 2013

PARTE NU’ BASTIMIENTO….





È partita nei giorni scorsi dal porto di Civitavecchia la portaerei Cavour e altre tre unità navali di supporto per una missione che toccherà diversi paesi arabi e africani e che ha come compito accessorio di contrastare i fenomeni di pirateria  lungo le coste africane e di portare aiuto e assistenza medica nelle località che si toccheranno. Ho scritto compito accessorio, perché il compito primario come ha detto il Min.della Difesa Mauro è quello di far vedere e promuovere in quei paesi l’eccellenza della produzione industriale italiana. 
Bene! Finalmente una buona iniziativa, gli armamenti usati anche a fin di bene e non per uccidere, simboli di guerra testimonial di solidarietà e pace…ma è possibile? 
No certo che no! Ma vi pare che andiamo dagli sceicchi e dai dittatori africani a vendere trattori, Fiat Panda e vestitini griffati? Ovviamente no, andiamo a fa conoscere e a vendere il meglio della nostra industria bellica, insomma armi, lo si deduce dal fatto che a fronte di un costo totale dell’operazione di 20 milioni di euro , 7 sono a carico dello stato e ben 13 a carico dell’industria privata, e di questa il maggiore (e forse unico) finanziatore è rappresentato dal gotha dell’industria bellica nazionale: L’AugustaWestland, la Oto Melara, la Selex Ess per i sistemi radar la Mbda per i missili  Aspide e Aster, Telespazio  che presenta sistemi avanzati per telecomunicazioni militari e altre minori.(*)

Quando arriveranno i prossimi, inevitabili barconi di migranti non dimentichiamo queste cose, chi ingrassa con le guerre e chi soffre, chi è responsabile e chi è vittima.

Però il Min. Mauro ha tenuto a precisare in Parlamento che tutto si svolgerà nel pieno rispetto delle leggi e delle normative europee, non avevamo dubbi!

Ad maiora|

MIZIO


(*) fonte. “Il Manifesto”

giovedì 14 novembre 2013

C’E’ VOGLIA DI SINISTRA,….ANCHE A DESTRA






La crisi che stiamo attraversando è abbastanza chiaro trattarsi di una crisi sistemica e non di una “normale” crisi caratteristica del sistema economico capitalista.
Basta confrontarla con altre crisi similari avvenute nel passato a partire da quella del ’29 fino a quella degli anni ’70 per la crisi petrolifera o altre di minore impatto.
Questa più che una crisi somiglia sempre più ad uno tsunami i cui contorni e le cui finalità spostano il loro impatto sempre un po’ più avanti sia nel tempo che nelle condizioni.
Per tutti i paesi le conseguenze  sono state pesanti, ma per alcuni sono state addirittura devastanti, tanto da far pensare che la regia della questione sia sfuggita di mano andando oltre i desiderata.
Certo il quadro è complesso e di non facile soluzione ma mai nella recente storia c’è stata la sensazione, come in questo momento, che le risposte e le soluzioni proposte siano totalmente, oltre che inadeguate, anche sbagliate e pericolose.
Sbagliate perché si parte da un presupposto, se pur condiviso dai più, totalmente errato e mistificante cioè, per alcuni paesi la crisi è più pesante perché hanno un enorme debito pubblico.
Già nella definizione troviamo l’incoerenza e la contraddizione della questione: se un debito è pubblico, cioè di tutti, non può essere considerato un grave problema. Se io ho un debito con un soggetto terzo ho ragione a preoccuparmi, ma se ce l’ho con me stesso (è il nostro caso) posso decidere tranquillamente di soprassedere. Oddio già sento i soloni di turno che inorridiscono e ripetono a pappagallo:  il debito non è con noi stessi ma è con gli investitori stranieri (leggi speculatori) che acquistano i nostri titoli, lo so non vi preoccupate lo so!. Ma basterebbe che la politica, quella nobile con la P maiuscola riprenda le redini e la dirigenza dell’economia sapendo, anche, che questa situazione è stata indotta artificialmente da decisioni a livello internazionale sotto pressione e direzione delle multinazionali della finanza, in cui la politica ha progressivamente ma inesorabilmente rinunciato ad avere un ruolo attivo e dirigenziale.
La caduta del muro di Berlino ha  sancito una sconfitta culturale e politica di ogni forma di alternativa sistemica al capitalismo il quale, ovviamente, ne ha profittato, riprendendosi con gli interessi tutto quel poco che le lotte e la paura dell’orso rosso gli aveva costretto a cedere. Quindi quello che è mancato nella gestione delle dinamiche economiche e sociali degli ultimi venti anni è stata una proposta politica forte e alternativa capace di controbilanciare il pensiero unico dominante.
Difatti negli ultimi anni abbiamo assistito ad una cosiddetta “sinistra” che effettua scelte in contraddizione con il proprio passato e retaggio storico e che lo fa spesso, in maniera più radicale della stessa destra spalleggiando, nei fatti, quei poteri e quegli ambienti che fino a poco tempo prima erano considerati nemici.
Ad esempio, vediamo che in Italia, infatti, in questi ultimi anni, la differenza tra destra e sinistra è stata soprattutto pro o contro Berlusconi, non certo pro o contro scelte diverse in campo politico, economico e sociale.
Le recenti riforme degli ultimi governi, tecnici o di grandi intese, sono in assoluto le più devastanti e ingiuste della storia moderna, si immolano sull’altare della speculazione finanziaria (leggi interessi del debito) milioni di vite e interi ceti sociali.
Se questo è, allora mi chiedo: qual è il ruolo e la funzione della politica? Qual è il senso di destra, sinistra, centro se poi nello spartito che si propone c’è la stessa musica e cambiano solo, eventualmente e non sempre, gli esecutori?
In Italia, comunque, siamo fortunati, perché la disaffezione e le proteste si sono limitate all’assenteismo elettorale e a un voto di protesta affidato a un personaggio folkloristico e, tutto sommato, innocuo come Beppe Grillo, anziché a movimenti più radicali e magari fascisti e xenofobi, come sta succedendo in Grecia e, udite udite, anche in Francia.
Le rivendicazioni di carattere rivendicativo e di giustizia, anche se inquinate da sentimenti di odio razziale o di genere, sono diventate patrimonio della destra cosiddetta sociale, i fascisti del terzo millennio, come si autodefiniscono gli epigoni del fascio qui da noi.
Questo vuol dire che, come succede in natura, se uno spazio ecologico viene lasciato vuoto, altre specie non tarderanno a colonizzarlo. Ma questo vuol dire anche altre cose, ad esempio che la sensibilità all’ingiustizia ancora trova spazio, che la voglia di cambiare, anche se manifestata in modo sbagliato c’è, e allora mi chiedo: la sinistra o quella che ancora si definisce tale, che aspetta a rimettersi intorno ad un tavolino e a proporre ipotesi e soluzioni sociali alternative, che aspetta a essere di nuovo interprete del disagio, che aspetta a schierarsi compatta senza se e senza ma a fianco dei lavoratori e dei ceti più deboli? Ancora troppo forti sono le diffidenze reciproche, le lacerazioni, i distinguo, su chi sia il più o meno puro rappresentante dell’integralismo ideologico. E nel frattempo lor signori continuano a fere i loro porci comodi, i giovani abbandonati a futuri senza luce, gli anziani mortificati nel loro presente, i nuovi emarginali gli extra comunitari affidati, a seconda del momento, a sentimenti di pietà o di ostilità incapaci di gestire e indirizzare energie e forze diverse che potrebbero, se ben canalizzate rappresentare straordinarie opportunità di crescita collettiva. Anche a sinistra si continua a vagheggiare di ripresa economica, di rilancio industriale adottando gli stessi occhiali da miopi
(nel suo caso interessati), che indossa il capitalismo, incapaci ormai di formulare progetti e alternative credibili.
Mai scelta fu più scellerata del “politically correct”, in cui il nemico non è più tale ma competitor, in cui i ruoli e le cose cambiano nome ma non cambiano il loro status esistenziale, in cui il rispetto è solo formale in quanto lo squilibrio iniziale è abissale e non permetterà mai pari opportunità.E lo si vede nelle scelte quotidiane, i potenti trovano sempre ciambelle di salvataggio (legali, per carità) laddove i poveri cristi sono invece immolati e sacrificati sull’altare del profitto.
Ecco! L’ho detto anch’io il termine innominabile, profitto,  che è giusto nel caso degli speculatori, diventa intollerabile quando riguarda i lavoratori. Marx aveva trovato una formula per ridistribuirlo in maniera più equa: il “plus valore”, che dava dignità e valore al contributo di ognuno al lavoro e al prodotto finito.
Magari ricominciare ad essere meno corretti lessicalmente e più decisi e radicali nelle scelte, potrebbe indurre anche i “padroni” (li chiamo così, perché questo sono. Loro la lotta di classe non l’hanno mai smessa, e io, poi, sono politically scorrect) a rinunciare a una parte dei loro privilegi, sia pure per timore e non per convinzione..
Insomma se la sinistra ritrova le motivazioni e le tematiche alternative che le sono proprie si potrà, anche se in tempi non brevi, riappropriare degli spazi politici e sociali che le sono naturali, se rincorrerà settarismi e/o sentieri che attengono ad altri (vero PD?) è destinata ad una lunga e continua agonia e lascerà sempre più spazio a forze e movimenti di tutt’altro segno e di tutt’altra origine.
Ad maiora.


MIZIO   

martedì 5 novembre 2013

QUESTA CRESCITA E' CONTRO LA VITA

Un commerciante indiano ispeziona i semi di girasole come egli partecipa a una vendita all'asta di semi al mercato del grano nel villaggio di Jandiala, vicino a Amritsar, in India, il 29 maggio 2013.

L'ossessione della crescita ha travolto il nostro interesse per la sostenibilità, la giustizia e la dignità umana. Ma le persone non sono merci da usare e gettare - il valore della vita si trova fuori dallo sviluppo economico

La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (PIL), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse.



Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il PIL si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la "crescita", misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci.

Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi. I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate.

L'acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l'acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l'economia cresce. Ma questa crescita é basata sulla creazione di povertà - sia per la natura sia per le comunità locali. L'acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una carestia d'acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l'acqua è diventata 10 km, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l'impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.

Nella stessa ottica, l'evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica, produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprare di più ogni stagione.

La natura si impoverisce, la biodiversità é erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L'acquisto di semi ogni anno é una ricetta per l'indebitamento dei poveri contadini dell'India. E da quando é stato istituito il monopolio dei semi, l'indebitamento degli agricoltori é aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.

La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita é commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso, e la gente diventa più povera.

Sia l'ecologia che l'economia sono nate dalla stessa radice - "oikos", la parola greca per casa. Fino a quando l'economia è stata incentrata sulla famiglia, essa riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Essa era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all'interno di questi limiti. L'economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l'economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l'espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.

Il modello dominante di sviluppo economico é infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari - ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani.

Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell'economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l'acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo é la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo é la violenza contro l'uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo é la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.

L'aumento del flusso di denaro attraverso il PIL si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone - la loro terra e l'acqua, le foreste e i semi. Questa sete conduce essi all'ultima goccia d'acqua e all'ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia.


Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen, hanno riconosciuto che il PIL non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo é il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la felicità nazionale lorda al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il PIL, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita é la vita stessa.
VANDANA SHIVA