venerdì 27 settembre 2013

RACCONTI BREVI di Maurizio Santopietro


Pubblichiamo con piacere nuovi contributi del Dott. Maurizio Santopietro.
Questa volta sono tre brevi racconti, tre istantanee sulla sua e nostra adolescenza e gioventù 


Aspettando ”l’ottantasette



   Maria Pia cambiò idea, salì di scatto le scale del metrò di “ P.za Re di Roma” prima ancora di scenderle tutte e puntò la fermata dell’”ottantasette”, dopo aver percorso un breve tragitto di strada, tagliando per via Cerveteri. Qui, nei pressi di “P.za Tuscolo”, si trovò in compagnia di un nutrito gruppo di persone, che speravano di divenire, di lì a poco, semplici passeggeri.
“Non si dovrebbe far desiderare troppo” pensò la ragazza alludendo al mezzo pubblico, vedendo tanta gente. Distribuì un’occhiata distratta attorno a sé, quando vide piombare in lontananza, con un incedere frettoloso e goffo, un arzillo vecchietto dalle gambe arcuate, che portava un’enorme gabbia ricoperta da un panno. Maria Pia aveva di fronte, in pieno centro cittadino, nell’ora di punta, un autentico contadino, che emanava un lezzo subdolo per le sue narici. Ma sapeva che non era l’esordio della primavera a diffondere quell’odore campestre. Maria Pia conosceva l’aroma della terra calabrese, non di quella laziale.
L’autobus arrivò nei minuti successivi; era affollato, ma non tanto da lasciarselo sfuggire. La discesa, regolarmente ottenuta con spintoni dai passeggeri, che uscivano dalla porta sbagliata, congiuntamente alle proteste di quelli che volevano salire nel medesimo momento, fomentò l’immancabile ressa, da cui il contadino se ne guardò bene di farvene parte. L’ambiente rurale è molto più spazioso e comodo, “di queste scene non ne ho il ricordo” rifletté il contadino.  Osservò quindi a debita distanza. Gettò la gabbia sulla pedana e, contraendo la faccia dallo sforzo, salì aiutandosi con le due mani. Chiedendo scusa, con un marcato dialetto frascatano, si procacciò, con inattesa facilità, il giusto spazio per sé e per la gabbia, che conteneva un pollo, vivo e vegeto, dato lo sventolio rumoroso e nervoso delle ali. Maria Pia, ritirando lo stomaco arrestò l’inalazione di quell’aria calda e viziata; arrivò fino al centro del bus. Scovò un posto in piedi, esiguo spazio, che le consentì il rilassamento degli addominali. Difese quel posto con decisione, stringendo forte la mano attorno all’apposito sostegno standosene in piedi. Sedeva invece, accanto a lei, una piccola, esile donna filippina. L’autobus procedeva a singhiozzi. Maria Pia fissava l’orologio, non era il ritardo che temeva, era l’imminente esame universitario. Ripassava mentalmente i punti salienti e quelli più ostici per la sua pur fervida memoria. L’esercizio mnemonico la isolava dalla pressione della calca.
Nell’autobus i passeggeri sono cose fra cose. I loro sguardi sembrano andare oltre i finestrini, ma rimangono lì, all’interno: ciò che accade fuori è come se non si vedesse...
Ad un tratto, strilli e stramazzi vari gettarono nel caos più completo i passeggeri dell’”ottantasette”. Il pollo si era inopinatamente liberato. L’insolita confusione s’abbatté sulla folla come mai s’era visto nella più esilarante comica. In alto, il volatile fuggiva saltando di testa in testa, portando via qua e là qualche ciocca di capelli, mentre un numero incalcolabile di piume si spargevano dappertutto, come bianche schegge impazzite. L’animale non riuscì nell’intento di varcare uno dei tanti finestrini aperti. Gli utenti più temerari, con al capo il contadino, tentarono arduamente di dare la caccia al pollo, sotto lo sguardo costernato di un pubblico, le cui agrodolci lacrime lucidavano facce sempre più smarrite. Allo stesso tempo si urlava e si rideva fragorosamente. E le sorprese non cessavano di stupire!
Il conducente prese ininterrottamente a starnutire: ad ogni starnuto seguiva una brusca sterzata, che sballottava qua e là i poveri passeggeri. L’autista era allergico alle piume. La studentessa si aggrappò con entrambi le mani, aderendo veementemente con tutto il corpo alla stanga verticale. L’allergia spossò subito l’autista; giocò a birilli con i passeggeri; e si rivelò così pericolosa da provocare un pauroso, quanto originale incidente stradale. La curiosità attirò rapidamente una gigantesca folla fra Via “Appia” e Via “La Spezia”, teatro dell’avvenimento.
Gli occhi prostrati della filippina puntavano, senza equivoci, Maria Pia, per una richiesta che mai avrebbe potuto immaginare, stravolta com’era per il botto annunciato. Anzi, temette il peggio durante il tragicomico zigzagare; provò un vero spavento. La filippina, insistendo, disse con una voce implorante al suo sconosciuto interlocutore: ”Rotto acqua”.
“Cosa ha detto, prego?” rispose sorpresa la ragazza curvandosi verso di lei. “Rotto acqua” pronunciò sillabando.
“Oddio! Sta per partorire!” realizzò Pia, che solo allora scoprì la rotondità del suo ventre.
“Presto, presto!! – si sgolò incredula Pia – “Questa donna sta partorendo presto! Qualcuno chiami un’ambulanza! Su, presto!!!.”
Il conducente, che continuava a starnutire, dialogava animatamente con lo sventurato automobilista, quando tutti i passeggeri erano ormai in strada, mescolati fra i curiosi; alcuni avevano bisogno di cure mediche; gli altri, quelli favoriti dalla sorte, confrontavano le rispettive impressioni formulando mirabolanti spiegazioni. Gli echi delle sirene segnalavano intanto l’imminente arrivo degli auspicati aiuti. Sul mezzo pubblico rimase solo il contadino, che ancora non era riuscito, in quel territorio a lui inadatto, a catturare l’animale, ma nessuno più badò a lui.

Subito gli infermieri soccorsero la filippina, mentre i vigili chiesero lumi sullo svolgimento dell’incidente all’autista dell’ATAC, al quale gli iniziarono a lacrimare copiosamente gli occhi, per la violenta irritazione. Quatto quatto, il contadino, avendo risolto il contenzioso con il pollo, s’allontanò indisturbato...



Il numero dimenticato (di Maurizio Santopietro)



Nei pressi di Settebagni l’acre esalazione delle fabbriche, annunciava l’imminente arrivo a “Roma Termini”, inconfondibile segnale del ritorno a casa, dove mancavo dal fatidico primo ottobre. Ero emozionato, ma non lo davo a vedere. I miei mi aspettavano per il giorno dopo, il 22 dicembre.
Il treno, per quanto avesse rallentato, superava in velocità tutte le macchine che transitavano lungo la parallela Salaria. Dal finestrino partecipavo a tutti gli altri sorpassi, mentre i miei compagni già si preparavano a raccogliere la loro roba per portarsi all’uscita. Non mi attardai di molto a raggiungerli. Don Marzio smise la lettura del breviario. “Aspettatemi ragazzi, apro io il portellone, mi raccomando: non apritelo! ” ci disse ammonendoci con tono un po’ preoccupato, abbottonandosi il paltò e aggiustandosi in testa il cappellone nero.
Nella stazione l’assordante rumore metallico dei treni, mescolato agli incomprensibili annunci ferroviari e al frenetico andar vieni dei passeggeri, come di formichine operose, rimbombavano in un’unica, ordinaria confusione. L’aria lì, doveva essere viziata. Fuori, ci apparve una piazza addobbata a festa. La giornata era molto fredda, sembrava voler nevicare, ma forse era più un desiderio che non una credibile previsione atmosferica. Un vento pungente intanto disperdeva l’inconfondibile aroma di castagne arrosto: olezzo che avrebbe saturato indelebili ricordi natalizi. Le sferzate secche della brezza capitolina ghiacciavano il naso e paralizzavano le mani, pur riparate dalle tasche del giubbotto, ma sul collinoso paesino umbro le raffiche spingevano più violentemente.
Don Marzio, un prete vigoroso, dall’eterno e spontaneo sorriso e dai dolci occhietti neri, era assiduamente invasato da un inesauribile spirito altruistico, ci radunò attorno a sé sul piazzale antistante alla stazione per illustrarci il programma, magro ma allettante: “Ora andiamo allo zoo; venite dietro a me, prendiamo gli autobus. Mi raccomando ragazzi, ché non siamo a Monterubiaglio! Pranzo al sacco all’una e mezza circa. Quelli di Roma, dopo la gita possono andare a casa”.
A quelle parole trasalii. Passava nel frattempo il “7”, il tram, che collegava “Piazza Zama” a “Piazza Indipendenza” (mi avrebbe portato a casa qualche anno dopo). Quella linea ferrata ora non c’è più da quasi un trentennio.
Don Marzio, anche in quell’occasione indossava, sotto il cappotto, una tunica consunta, il colletto - sbiadito - era in compenso pulito. Il colore del suo abito talare era per me più chiaro delle vesti chiare delle suore, con le quali trascorsi un anno infelice. L’abito non fa il monaco: non si vede immediatamente, ma s’intuisce distintamente attraverso l’uso di altri sensi: a volte non c’è bisogno di occhi per vedere...
Erano le dieci e mezza del ventidue dicembre. Io avevo otto anni e mezzo.
La vista degli animali nelle gabbie, cesellò tristezza nel bianco animo di bambino. Rimuginai più volte attorno alla loro condizione e, sotto certi aspetti, anch’io mi sentivo distante dal mio habitat naturale.
Vagammo per Villa Borghese (non c’ero mai stato prima di allora) e trovammo tempo per mandar giù una buona pastarella. Un gustoso fuori programma. Partendo dallo zoo, non avrei saputo come fare per andare a casa da solo: lì ero fuori zona. Così il prete buono dall’eterno sorriso e dalla tunica consunta e dal colletto sbiadito ma pulito, mi affidò ad un ragazzo di sedici anni.
“Conosco a fondo il quartiere dove abiti” mi disse per rassicurarmi.
 Io risposi annuendo con il capo, provando per lui schietta fiducia.
Allungò allora la mano sinistra per sgravarmi dal peso della piccola borsa, che io tenevo a malavoglia. Salutai energicamente il gruppo di compagni e Don Marzio, che mi pregò di serbare gli auguri per i miei genitori.
Avanzavano intanto le ombre crepuscolari, sebbene le giornate incominciassero ad allungarsi, mentre il freddo si faceva sempre più intenso. Lungo i marciapiedi, adiacenti ai bar, si elevavano torri di panettoni e pandori (a prezzi esorbitanti), che emanavano una miscela fragrante di dolciumi, irrefrenabile stimolo per risvegliare cascate d’acquolina in bocca. Io adoravo il sapore e l’odore del pandoro, perché non aveva i canditi. A volte gli occhi, senza volontà, si posavano sulle sorridenti facce dei cartelloni pubblicitari, che contrastavano con quelle più grinzose dei passanti, assillati dai regali da acquistare. L’apparizione di due zampognari, preceduta dal suono delle cornamuse, conferì a quel clima natalizio un alone fatato, cui mancava soltanto soffici coriandoli di neve, per essere una vera favola da narrare. Avrei voluto ricompensarli, i suonatori di zampogna, ma non avevo un soldo, così li contraccambiai ammiccando al loro passaggio. E fu allora che notai i riverberi delle luci intermittenti fendere il tessuto scuro del tardo pomeriggio. A “Piazzale Flaminio”, io e il mio occasionale tutore aspettammo il primo mezzo utile per “Piazza Venezia”. Spuntò il “Novanta” dopo un’attesa infinita. Non stavo nella pelle. Tra me e il mio giovane custode non ci fu bisogno di troppe parole. Scesi dal “64” (era a due piani), la voglia di tornare a casa ci motivò a correre a perdifiato fino all’altro capolinea (“Largo dei Fiorentini”), dove riuscimmo a salire sul “98 crociato”, terzo ed ultimo mezzo pubblico. La fretta di arrivare, in questo caso, si rivelò buona consigliera: prendemmo l’autobus a motore ruggente, senza avere il fiatone né le cosce di pietra come quando non si è allenati allo sforzo. “E ora a casa!” esclamai beato fra me. Ci spostammo avanti alla ricerca d’improbabili posti a sedere. Il traffico rallentò l’attraversamento di “Ponte Garibaldi”, ma percorse la salita dell’illuminatissima “Via Gregorio VII” con meno insidie del previsto.
Stonava, rispetto a quell’atmosfera festosa, il buio delle acque del Tevere, che rifletteva fiaccamente il debole lume dei radi lampioni accesi. Dopo le prime fermate, il “98 crociato” si affollò di passeggeri che, come di consueto in quel periodo, si moltiplicavano per scissione diretta! Ravvisai facce stanche, tuttavia avevano l’espressione rasserenata (forse di chi già sta pregustando le delizie del Natale). A molti di loro occorrevano due mani in più per tenere a bada le borse piene di compere. A dire il vero io non pensavo ai regali; mi erano indifferenti, ciò che m’importava era stare nel bel mezzo dell’affetto familiare, ma avevo anche un nostalgico desiderio dei succulenti primi piatti napoletani di mia madre, che li cucinava davvero come nessuno.
Lasciata alle spalle la salita, l’autobus s’inoltrò per una stradina stretta, totalmente nera (non si riusciva a scorgere che le sagome delle macchine con i fari accesi). Sembrava una via extraurbana. I lampioni fecero la loro comparsa dopo un breve tragitto, rischiarando il caseggiato. Scendemmo finalmente in “Via Bravetta”. L’orologio del giovane amico segnava un’ora imprecisa per me, allorché mi chiese il numero civico cui doveva accompagnarmi. Esitai a lungo non sapendo cosa rispondere, cosicché il mio silenzio fu sin troppo eloquente. Ebbi paura. Non sapevo il numero di casa mia! Per un attimo mi balenò l’idea del possibile ritorno in collegio. Iniziarono a colarmi rivoli di lacrime.
Il giovane comprendendo la mia immobile inquietudine, mi rassicurò per la seconda volta.
“Non ti preoccupare! Io conosco bene la zona. Descrivimi com’è fatto il palazzo; ricordarti altri particolari, che così guadagniamo tempo. Vedrai, fra poco starai a casa...”, mi disse il mio tutore, in modo affabile, chiamandomi per nome e mettendomi la mano sulla spalla. Mi aggrappai allora, a quelle parole di speranza.
L’oscurità profonda di quell’ora inghiottì gli abituali riferimenti spaziali: non riuscivo a vedere neppure il campo vicino alla marana (dove giocavamo a pallone), che si trovava giusto di fronte casa, di là della strada. Percorremmo a piedi quattro, cinque volte la via, fino ad arrivare a “Casetta Mattei”, fermandoci davanti a tutti i palazzi che incontravamo e leggendo i cognomi sui citofoni, laddove c’erano.
E ogni volta il ragazzo mi faceva la solita sfilza di domande: “Abiti qui?” “Sei sicuro che non sia questa?” “E’ forse quest’altra?”.
Io mi sentivo dentro una gabbia invisibile, senza più vie di uscita.
Sembrava fosse notte inoltrata, per quanto attorno era nero pesto. Del Natale, lì pareva non esistesse traccia: nessuna luce lampeggiava; né si udivano rumori. E non c’era nemmeno l’odore di castagne arrosto! Dubitai davvero. Forse che la festa arriva solo al centro, inondato com’è di scintillanti luci a tutte le ore? 
L’inutile, frustrante ricerca logorava la nostra pur ferrea volontà; ci fiaccava le gambe, e incrementava il senso di fatica scavando sconforto, instillando il pensiero della sconfitta.
“Per questa sera ti porto a casa mia, domani mattina rimedierò portandoti dai tuoi”, disse il ragazzo ormai disilluso.
Eravamo sfiniti e scoraggiati quando, ritornando indietro per l’ennesima volta, intravidi un bagliore, un bagliore irradiato da un angelo privo di ali e senza aureola. Esterrefatto, rivolsi lo sguardo su Alberto, ormai divenuto mio fido compagno di sventura, per trovare conferma, ma i suoi occhi puntavano altrove. Così, di scatto, mi voltai ancora l’ultima abitazione, il cui contorno aveva un’aria familiare.
“Babbo! Babbo!” urlai a squarciagola, e irruppi in un fragoroso, gioioso pianto liberatorio, mentre mio padre, con la testa china, stava salendo gli scalini d’ingresso al portone della palazzina dal numero civico 474...

 Scusa Ameri, scusa Ameri...”


Con profondo fremito attendevamo, sin dal mattino, l’inizio di una trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto”, i miei numerosi fratelli ed io. Le nostre sorelle ci sfottevano, ci schernivano, ci punzecchiavano con le offese più ridicole per il solo fatto d’essere tifosi, ma c’invidiavano. Maria ed Ersilia, in ordine decrescente d’età, invidiavano l’ansia domenicale che tenevamo per il Napoli, che consolidava ancora di più la nostra complicità. Le donne, compresa nostra madre, pulivano casa più a fondo, la domenica mattina. Le canzoni della radio, a tutto volume, rendevano loro le faccende meno noiose. Poi, di pomeriggio, il possesso esclusivo della radio passava nelle nostre mani.
Io, il più piccolo, non subivo molte critiche, perché a scuola promettevo bene e perché ero, l’unico della famiglia - in quel periodo - a stare in collegio. L’attesa, dicevo, si riempiva di una tensione del tutto peculiare, fra desiderio e paura: due facce di una stessa medaglia. Da una parte, ribollivamo per il desiderio di sentire, dalla viva voce di Enrico Ameri, che il Napoli fosse in vantaggio; dall’altra, la paura di avere a che fare con una realtà avversa, per quanto prevedibile.
Anticipavamo la rubrica sportiva imitando la rinomata, rauca, voce di Sandro Ciotti: “Scusa Ameri, scusa Ameri...: Napoli in vantaggio...”. Lo era sempre, almeno per gioco. Il migliore imitatore era Massimo. Era un vero e proprio rituale propiziatorio!
Quella domenica Massimo, Ottavio ed io, decidemmo di andare a giocare a pallone e “soffrire” a Villa Pamphili. Il cielo, annuvolato, non ci scoraggiò; il clima era ideale per disputare una bella partita.
Ce la facemmo a piedi da casa (Via Bravetta) correndo a turno dietro al pallone fino alla Villa, distante alcuni chilometri. Eravamo i padroni della strada. Era il nostro infinito campo di calcio, la strada.
Ogni tanto i doppioni delle figurine, scivolavano dalla tasca del pantaloncino e mi obbligavano ad interrompere la corsa, a far attendere i miei due fratelli, che non protestarono più di tanto. Superammo il “Buon Pastore”; arrivammo al cinema “Ara Pacis” senza affanno, senza rendercene conto. Solo il pallone di cuoio ci precedeva, sempre.
(Di fronte alla sala parrocchiale, c’era il “Bar Gagliardi”: lì ci lavoravano altri tre dei miei fratelli: Gennaro, che preferiva farsi chiamare Rino, tifoso moderato; Armando, tifoso esagitato, e Ugo, che era un po’ Armando e un po’ Rino). Evitammo di salutarli per non arrivare tardi all’”appuntamento”. Puntammo diritti verso il “campo”, la Villa. Non portammo la radio nonostante il consolidato diritto di possesso, infatti, eravamo sicuri di trovarne a decine, e già in funzione. In quegli anni, la diretta iniziava con i “Secondi Tempi”: la suspence si faceva ancora più densa.

(I calciatori portavano le divise con i colori sociali tradizionali, ed erano prive di cognome stampato sulle spalle (i giocatori di quel periodo si riconoscevano da dietro anche senza nome). I numeri, prima, suggerivano un preciso ruolo; le maglie non avevano il nome dello sponsor; prima, la casacca identificava una specifica squadra... E le partite si giocavano la domenica, al medesimo orario. Oggi il calcio è frammentato, sfigurato, smembrato, eccessivamente somigliante alla società contemporanea.

Il pallone adesso rotolava oltre il bivio di “Via della Pisana”. All’angolo si ergeva un’edicola tutta verde accanto ad un piccolo “Caffè” frequentato da nostro padre: ci passava il tempo libero giocando a carte, a condizione che non vi fossero ospiti a casa, con i quali giocarci.
Così arrivò il mio turno a lanciare la palla a Massimo, che scattò come una saetta, uno sprint degno di una vera “ala pura”. Io e i miei fratelli lo sfottevamo chiamandolo “Cavallo Pazzo”. Era bravo, correva come un forsennato, ma dribblava troppo, non passava mai la palla. Calciava di sinistro, come Gigi Riva.
Ora era la volta di Ottavio a sganciarsi. Raggiunse la palla e poi fu lui a lanciarmela in modo impreciso: un classico! (sfoggiava caparbietà agonistica, ma anche “piedi duri”, poca tecnica). Dal canto mio feci il solito scatto. Sembrava che io fossi dotato di talento naturale. Ero timidamente orgoglioso, perché giocavo con i più grandi e, in collegio, ero sempre tra i primi ad essere scelto. Desideravo, come tutti gli scugnizzi partenopei, di giocare con il Napoli (figuriamoci, anche gratis).
Quando toccavo la palla a centrocampo, diventavo Juliano; quando mi capitava di fare il portiere, emulavo Dino Zoff: paravo tuffandomi proprio come lui, con la stessa “serietà”.
Giungemmo finalmente alla Villa, litigando per chi avrebbe dovuto portare il pallone con le mani, finché non avremmo trovato un posto adatto per giocarci. Entrando, ci guardammo attorno. Non c’era l’atteso pienone. Solo i fedelissimi del pic-nic pasquale sfidarono la minacciosa, ostinata presenza delle nuvole; tutti però avevano una radiolina accesa. Mi sfugge chi di noi raccolse la sfera.
Dopo un’attenta perlustrazione, occupammo un’area abbastanza estesa per giocarci, poi ci accostammo ad un piccolo gruppo di persone che erano nei paraggi. Era disposto curiosamente a cerchio mentre la radio, come una sorta di totem, stava lì, al centro. Giungemmo in perfetta coincidenza con la sigla d’apertura. “La Stock di Trieste v’invita all’ascolto di: Tutto il calcio minuto per minuto”... Chiedemmo alla comitiva di farvi parte. Noi tre trasmettevamo una certa sofferenza o meglio, una condizione d’apprensione mista ad una sottile sfumatura di piacere. Una sensazione sadomasochista. Finalmente l’inconfondibile timbro di voce di Enrico Ameri annunciava dal campo principale il risultato del primo tempo: a S. Siro, Inter zero e Napoli uno. Gol di Altafini su respinta di Bordon al minuto...”, pronunciò distintamente la voce del radiocronista. Non trattenemmo la gioia di esultare, sebbene la parte più autentica di quell’effimera, profonda euforia rimase inespressa sotto la nostra pelle. Soddisfatti, ci apprestammo a dare i primi calci, incominciando a “passaggi”. Contagiammo gli occasionali spettatori; così potemmo formare due squadre di quattro giocatori. Ci muovemmo con destrezza; riuscivamo ad eseguire le giocate più raffinate. Giocavamo tendendo entrambe le orecchie alla radiolina. Ad un tratto irruppe con tono concitato Enrico Ameri, e all’istante fermammo la nostra partita. “Rigore, rigore a favore dell’Inter..., rigore molto contestato dai giocatori napoletani.... Zoff, di solito molto composto, si lascia andare a un atteggiamento di stizza...”, annunciava nervosamente Ameri. Inutile dire che io, Massimo e Ottavio pregammo in religioso silenzio che lo sbagliassero quel rgore!. Ma non fu così, purtroppo. Ci assalì un fastidioso scoramento per la beffa e il danno ricevuto. I miei fratelli continuavano ad inveire contro Gonnella, il signor arbitro che decretò l’ingiusto rigore. Entrambi formularono supposizioni geopolitiche. Ed io sentivo di appartenere ad una squadra discriminata, sebbene la natura di tifoso conosca solo il “principio del piacere”. Noi eravamo tifosi, e anche accaniti.
Gli effetti si manifestarono nel nostro rendimento: Massimo e Ottavio giocarono “distrattamente”, controvoglia. Vivevano l’aria di “S. Siro”, dove si era consumato l’iniquo pareggio. Ma potevamo contare ancora su tre gol di vantaggio. Profusi la tanta rabbia nel gioco, trasformandola in intenso sfogo agonistico. I nostri avversari accorciarono le distanze, avendo noi scelleratamente consentito di farci due reti. I nostri avversari si erano ormai rianimati. Centrammo quindi la palla. Ottavio scagliò il pallone sulla linea di destra, io la fermai con uno stop a seguire e attesi che il difensore venisse contro; con il busto mi spostai verso la mia sinistra mentre feci schizzare la palla al lato opposto. Superato l’avversario, prolungai freneticamente la corsa sulla (immaginaria) linea laterale; alzai la testa, per verificare la posizione dei miei compagni e quindi crossai verso Massimo, che attendeva il pallone sul secondo palo. La sfera, tesa, colpita violentemente al volo con un tiro mancino, si stampò sul secondo palo (in realtà un tronco d’albero). La palla rimbalzò quindi sul mio piede: un tocco “morbido” da sotto tratteggiò un preciso pallonetto. “Gol!!”, esclamai con un pizzico di rabbia. Per ascoltare nuovamente la radio, sospendemmo il gioco.
Noi tre speravamo sempre che la squadra ripassasse in vantaggio; Juliano e compagni avevano soverchiato gli avversari in lungo e in largo tutto il “Primo Tempo”, non raccogliendo in modo proporzionato alle energie profuse, i frutti sperati, da noi profondamente desiderati. La squadra aveva “speso” troppo, inutilmente. Non arrivando al gol, temevamo allora di incassarlo (per la dura regola del “gol fallito gol subito”). Stavolta l’ansia esprimeva la paura di perdere. La coinvolgente radiocronaca di Ameri non ci dette scampo. Era Boninsegna la causa della nostra abissale frustrazione. Il centravanti, con un’audace quanto folle incornata, rischiando di prendere in pieno volto una “pedata” da Panzanato, realizzò la rete. Sulle nostre facce calò una fitta, densa e nera desolazione. Ci sentimmo defraudati per l’ennesima volta. Il gruppo che ci ospitò comprese per intero la nostra amarezza e ci confortò rilevando la maligna interferenza arbitrale, ma ciò non alleggerì il malumore. Tornammo mestamente a giocare la seconda parte della partita, anche se io avrei voluto lasciare per vedere in televisione “Novantesimo minuto”, rubrica sportiva condotta dall’indimenticabile Maurizio Barendson (e poi da Paolo Valenti). Aderivo, in linea di massima, al ragionamento vittimistico dei miei fratelli, però mi riservavo di verificare, alla moviola, la decisione arbitrale. Lo sconforto sarebbe stato quasi drammatico se fossi rimasto lì, in collegio, nel campo vuoto...


Maurizio Santopietro

martedì 24 settembre 2013

GIORDANO BRUNO: LA VERITA' E' NELLA COSCIENZA DI OGNUNO

Tutte le religioni hanno in comune e detengono la conoscenza di una grande verità, una verità che l'uomo non deve assolutamente conoscere, ed il loro scopo è proprio quello di celare questa verità nel corso dei secoli, annichilendo qualsiasi forma di cultura o scuola di pensiero che possano stimolare l'uomo alla ricerca di questa verità. Giordano Bruno fu un uomo che colse questa essenziale verità e si sentì in dovere, verso i propri simili, di condividere la sua grande scoperta.


Ognuno di noi può giungere alla conoscenza di questa verità attraverso la ricerca interiore, come diceva Bruno: "è possibile conoscere senza sapere"; ma solo se ci si riesce a liberare da questa sorta di incantesimo collettivo, il cosi detto pensiero comune, che imprigiona le menti degli uomini in un sistema di credenze false e valori arbitrari, un'architettura ideologica funzionale al mantenimento del potere costituito, di cui le chiese sono gli strumenti.

Una delle concezioni comuni a tutte le religioni è l'idea che Dio o gli dei, a seconda del culto, sia qualcuno o comunque un'entità esterna all'uomo, separata dall'uomo, distante ed irraggiungibile. Questo concetto, dal punto di vista psicologico, deresponsabilizza l'uomo e lo mantiene in una condizione di incoscienza ed inconsapevolezza delle proprie azioni. L'uomo cosi, essendo stato separato dalla sua essenza più profonda: la Coscienza; che appunto viene surrogata dall'idea del dio onniscente ma distaccato, non riesce ad essere pienamente consapevole del senso più profondo e genuino del proprio agire.

Un esempio concreto: quanti italiani sono consapevoli del fatto che loro stessi, in prima persona, attraverso il proprio lavoro, con le tasse versate al ministero della difesa stanno finanziando il genocidio di altri esseri umani, la dove i militari italiani vanno ad occupare i vari territori di guerra in medio oriente, sparando addosso a civili disarmati, donne e bambini? Il militare che si ferma a pregare Dio affinché lo assista nella sua crociata contro il male islamico è forse consapevole del proprio agire?

L'azione consapevole, dunque, è la realizzazione dell'atto di volontà. L'atto di volontà è l'esercizio del libero arbitrio da parte della Coscienza. Cosi, attraverso l'azione consapevole la Coscienza si manifesta. Essere uomini significa agire secondo coscienza, altrimenti si resta burattini come Pinocchio! La Coscienza è l'essenza vitale di ogni forma di vita ed appunto la differenza fra un uomo morto ed un uomo vivo è il fatto che il morto non ha più una coscienza. Tutte le forme di vita che conosciamo, dalle specie animali a quelle vegetali sono manifestazione della Coscienza cosmica, ognuno di noi incarna una scintilla di essa e ne rappresenta un aspetto unico. L'esistenza fisica è appunto il modo attraverso il quale la Coscienza fa esperienza ed acquisisce conoscenza di sé, e questo avviene proprio attraverso i rapporti umani, attraverso l'esperienza della fisicità. Questa esperienza serve all'uomo per evolvere, proprio perchè l'uomo è un essere spirituale che, in qualche modo, esiste già in altri domini di esistenza, a prescindere dal corpo fisico, ma il corpo gli serve per per perfezionarsi.

Le religioni, ma anche i sistemi sociali, cercano di inibire in tutti i modi l'esperienza dell'uomo, castrando la sua naturale spiritualità che sta nella coscienza di sé, nella consapevolezza del proprio libero arbitrio, per surrogarla con modelli fraudolenti di tipo religioso o sociale che allontanano l'uomo dall'unico vero modello che è sé stesso, con tutte le sue qualità personali, alienando la sua creatività per incatenarla con rituali che inducono l'uomo al materialismo, e schiacciando il suo spirito con il senso di colpa, oltre a deresponsabilizzarlo, come abbiamo visto prima, per renderlo come un bambinone ed imbrigliarlo con un'infinità di regole morali e giuridiche che regolamentano il rapporto umano, ciò che invece dovrebbe essere la cosa più naturale.

In questo modo l'animale uomo, che comunque ha un'intelligenza superiore a quella degli altri animali, un intelligenza che gli permetterebbe di veicolare l'energia creatrice della Coscienza, ciò che definiamo Anima, attraverso l'azione consapevole, in progetti evolutivi ed in armonia con la natura, resta una bestia... facilmente addomesticabile... guidata esclusivamente dai propri istinti primitivi: mangiare e cagare; ed usa invece la propria intelligenza per costruire armi di distruzione di massa senza consapevolezza di sé, del proprio agire, e della realtà circa la nostra esistenza.

Super User

sabato 21 settembre 2013

OCCUPAZIONE MILITARE IN VAL DI SUSA


La notizia campeggia sui titoloni dei giornalacci mainstream e il sito del Corriere della Sera le dedica perfino la posizione d'onore, per mezzo di un titolista che in tutta evidenza non conosce neppure l'argomento, dal momento che ritiene che a Chiomonte si stia scavando il tunnel di base del TAV e non una galleria geognostica propedeutica all'opera, come invece sta accadendo in realtà.
Il governo dell'inciucio avrebbe scelto la linea dura, decidendo d'inviare in Val di Susistan 200 nuovi soldati di occupazione ed a Torino un nuovo prefetto (di ferro) nella persona di Paola Basilone, attuale vice capo della polizia.....


In parole povere, la mafia del TAV decide di stringere i tempi il più possibile, temendo che il boccone possa scivolare via, prima di averlo addentato e si cautela per evitare qualsiasi sorpresa.
Dopo le azioni deliranti della magistratura, volte ad incriminare decine e decine di NO TAV, con accuse gravissime prive di qualsiasi riscontro, dopo gli attentati "misteriosi" che negli ultimi mesi hanno bruciato decine di mezzi movimento terra, dopo l'immenso spazio mediatico dedicato ai piagnistei di molto improbabili "onesti" imprenditori, ridotti sul lastrico dalla protesta contro l'alta velocità, ecco che il più assurdo governo (pro tempore) della storia repubblicana, decide di calare l'asso, nella speranza di chiudere la partita.

Per eliminare la protesta popolare contro il TAV in Val di Susa, partecipata da decine e decine di migliaia di persone, inizialmente si è provveduto a gasarle con i lacrimogeni al cs, sfoltendo per forza di cose le fila, dal momento che non tutti sono disposti a rischiare la vita e la salute per difendere la terra in cui vivono. Ridotta la contestazione militante a qualche migliaio di "coraggiosi", insieme al cs è entrata in campo la magistratura, con incriminazioni farsa, perquisizioni a tappeto, arresti, intimidazioni ed ogni altro atto che rientri nel novero della repressione selvaggia di una protesta legittima. Con la conseguenza di ridurre ulteriormente le fila dei "coraggiosi", perché anche chi è disposto a rischiare la vita e la salute per difendere la terra in cui vive, non sempre può permettersi di perdere il lavoro con il quale sostenta la propria famiglia.

Giunti a questo punto, la tentazione di chiudere definitivamente la partita deve essere stata fortissima, soprattutto dal momento che è possibile approfittare di un governo totalmente incapace d'intendere e di volere e di un'opinione pubblica completamente inebetita.
Ecco dunque l'infame accusa di terrorismo, gettata sulla schiena di tutti i valsusini che da sempre si battono contro un'opera tanto devastante e costosa, quanto priva di qualsiasi prospettiva di utilità pratica. Ecco l'inasprimento delle leggi relative alla blindatura del cantiere, vigliaccamente nascosto all'interno del decreto farsa sul femminicidio. Ecco altri 200 soldati catapultati a Chiomonte, ad occupare quel lembo di Val di Susistan che nell'immaginario collettivo fa tanto Kabul.

Se l'interpretazione di tutti questi segnali è quella giusta, e l'enfasi mediatica con cui ultimamente si parla di Val di Susa lascerebbe suppore di si, con tutta probabilità nelle prossime settimane verrà creato il casus belli propedeutico a dichiarare fuorilegge l'intero movimento NO TAV ed a chiudere la partita, attraverso centinaia di arresti arbitrari e la messa al bando di qualsiasi protesta relativa all'alta velocità.
La mafia del TAV non ha ancora vinto, ma la sensazione è quella che voglia provare a vincere definitivamente entro tempi brevi, passando "sul cadavere" di tutti i valsusini che nonostante tutto hanno deciso di non arrendersi.

Marco Cedolin

venerdì 20 settembre 2013

CONTINUA LA SVENDITA DELL' ITALIA



Intervista a Alberto Bagnai

Le privatizzazioni non sono sempre un male, ma quelle compiute in Italia negli anni Novanta vengono ricordate con il termine meno lusinghiero di “svendite”. Oggi, per far fronte a un crescente debito pubblico, il governo non esclude di mettere sul mercato le società - tra cui dei veri e propri “gioielli” - che ancora lo Stato possiede o controlla, come Enel, Eni e Finmeccanica. Al Workshop Ambrosetti di Cernobbio si è tornati a parlare del tema con la possibile presentazione di un piano di privatizzazioni entro fine mese e la conferma del presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini, dell’apertura di un dossier relativo ad Ansaldo. Corriamo il rischio di svendere dei pezzi pregiati della nostra industria, magari strategica? Abbiamo fatto il punto della situazione con Alberto Bagnai, Professore di Politica economica all’Università di Pescara.

- Trova l’operazione  politicamente legittima?

Dal punto di vista economico, no. Il tentativo di abbattere il debito tramite la cessione di attività pubbliche si è sempre rivelato un fallimento: ogni volta che si è proceduto in questa maniera, lo stock di debito non è stato sensibilmente intaccato; in compenso, lo Stato si è privato di un importante fonte di entrate. È evidente, infatti, che se un’azienda viene ceduta all’estero (il nostro governo parla, in tal senso, di “afflusso di capitali esteri”) i suoi profitti andranno fuori dall'Italia. Un’evidenza che, di recente, ha ribadito Romano Prodi, su Il Messaggero del 17 agosto.

- L’artefice delle svendite degli anni 90 ?

Effettivamente, fu l’artefice di quel progetto.

- E pure dell’adozione dell’euro al cambio di 1936,27 lire. Che effetti produsse quella scelta?

Ogni volta che un Paese adotta una valuta troppo forte per le condizioni della propria economia, si espone al rischio di svendita. Nonostante alcuni economisti non molto preparati sostengano che la valuta forte rende l’acquisto delle nostre imprese particolarmente oneroso, mettendoci così al riparo dalle acquisizioni straniere.

- E invece?

Invece è vero il contrario: la valuta forte distrugge la redditività delle aziende, mettendo gli imprenditori in condizioni di vendere. Inoltre, la mancanza di sovranità monetaria ha esposto l’Italia ad attacchi speculativi all’interno del mercato dei titoli pubblici e a un crollo delle quotazioni borsistiche. Le aziende che hanno visto i propri valori di mercato crollare sono diventate estremamente vulnerabili.  

- Le vendite che ha in mente il governo che effetti produrrebbero sul debito pubblico?

Nessuno. Il debito pubblico non si sostiene, alla stregua di qualunque altro tipo di debito, agendo sullo stock, ovvero sull’ammontare, ma sui flussi, cioè sui redditi. Mi spiego: chi è ricco, può permettersi forti indebitamenti.

- Secondo lei, che senso ha, quindi, l’operazione del governo?

Operazioni di questo tipo, contestualmente alla difesa della valuta forte, servono per favorire gli obiettivi dei delocalizzatori, ai quali conviene portare la produzione fuori dall’ Italia, per beneficiare del basso costo dei salari, ma tornare a vendere i prodotti in Europa, dove l’euro forte rende estremamente facile importare da paesi più poveri. Non è un caso che questo governo sia fortemente allineato, come si è visto a Cernobbio, con Confindustria. Come se non bastasse, queste iniziative, se fatte in condizioni di emergenza, quando i valori di mercato sono bassissimi, sono talmente poco redditizie che inducono un legittimo sospetto: servono per promuovere gli interessi dei creditori esteri e delle grandi banche d’affari che ci guadagnano prima a suon di costose consulenze e, poi, gestendo le suddette operazioni. 

- Tuttavia, non crede che ci siano beni pubblici che non solo è legittimo ma anche doveroso vendere, come le partecipazioni degli enti locali nelle aziende pubbliche?

Il cuore del problema consiste nella qualità della spesa pubblica e nell’efficienza nella gestione del patrimonio pubblico. Occorre, quindi, abbattere la cattiva burocrazia che vessa il cittadino, sostituendola con una che sistematicamente compia i dovuti controlli. 


Paolo Nessi

martedì 17 settembre 2013

EGOISMO SOCIALE O SOLIDARIETA' EGOISTA?



L’essere umano si distingue dagli altri animali presenti sul pianeta per caratteristiche peculiari appartenenti solo alla propria specie e non riscontrabili, se non in maniera molto attenuata, in poche altre. E non mi riferisco alla posizione eretta, alla vista frontale o al pollice opponibile tutte caratteristiche, anche queste, peculiari solo del nostro essere umani e che, indubbiamente, hanno favorito una diversificazione totale nel percorso evolutivo. Ma questo è appannaggio e materia di studio  di antropologi, di biologi ed evoluzionisti, io mi voglio riferire a caratteristiche comportamentali più che morfologiche.
Tra gli animali esistono diverse forme di interazione tra i membri della stessa specie o della stessa “famiglia”: si va, ad esempio, dalla società delle api e delle formiche, basate su un’esasperazione della società solidale, in cui il singolo individuo è praticamente privo di alcun valore a comportamenti esattamente opposti, come quello di alcuni felini (es. tigri) in cui  è il singolo individuo ad essere protagonista, essendo il rapporto solidale limitato alle funzioni riproduttive e all’allevamento dei piccoli fino a che questi non siano autosufficienti. Nel mezzo troviamo il comportamento di altre specie che possiamo definire intermedio come ad esempio quello dei lupi o dei leoni, che cooperano in branco ma in cui non viene annullata l’individualità. Difatti in ambienti integri dal punto di vista ecologico in cui vi è abbondanza di prede di grandi dimensioni, come nelle foreste del Grande Nord Canadese o della Siberia, i lupi cooperano in branchi anche numerosi, in quanto la prede (alci, caribù) sarebbero pressochè  inattaccabili da un singolo individuo. In altri ambienti ecologicamente più degradati, come i residui boschi europei, i pochi esemplari che ancora li occupano, operano in gran parte in solitaria o al massimo in piccoli branchi famigliari di tre o quattro esemplari, essendo la mole delle prede inferiore e insufficiente a garantire la sopravvivenza di un branco numeroso.
Quindi vediamo che la solidarietà del lupo è legata al maggior interesse individuale essendo si, in grado di operare in maniera autonoma, ma solo  quando ciò sia più conveniente o, addirittura, obbligato. Possiamo parlare quindi di solidarietà egoista ma non di egoismo solidale.
L’uomo, essere anomalo, non ha artigli, non ha una folta pelliccia, non ha corna o corazze per difendersi, non corre velocemente (rispetto ad altri animali simili) è relativamente debole, non vola, non può stare in acqua troppo a lungo, non sopravviverebbe in condizioni climatiche estreme. Insomma tutto questo per dire che l’essere umano è stato costretto dalla sua stessa naturale evoluzione ad essere solidale con i propri simili. A partire dalla cooperazione per procacciarsi il cibo, per arrivare alla trasmissione intraspecifica e alle generazioni successive di nozioni e scoperte che man mano i singoli individui facevano e condividevano.Un uomo solo, sia nell’antichità che nelle moderne società, sarebbe un uomo morto. Forse non fisicamente, che magari in qualche maniera riuscirebbe a sopravvivere, ma socialmente e evolutivamente sicuramente si. Non potendo contare su alcun apporto migliorativo della propria condizione proveniente da esperienze di individui legati da interessi comuni.
Dunque, ci troviamo di fronte all’assunto che l’uomo è, e deve essere, per sua stessa natura, votato alla solidarietà egoista e alla condivisione.
Ma qui si inserisce un altro decisivo aspetto dell’essere umano: l’individualismo l' Io Sono”, scarsamente presente in altre forme animali, da cui trae origine l’egoismo e la presunzione, che abbiamo visto già presente, in parte, ad esempio tra i lupi. Ma,  nel caso dell’uomo rappresentando una  variante nel percorso evolutivo rappresenta la vera e propria "misteriosa" anomalia della nostra "specie".
Non mi voglio addentrare in discorsi di carattere filosofico o religioso, non essendone neanche in grado, ma semplicemente analizzare il fatto che, nonostante, l’egoismo solidale sia la migliore via evolutiva per il singolo e per la società tutta, esso venga troppo spesso immolato sull’altare dell’egoismo non solidale in cambio di un miglioramento (spesso effimero) della propria individuale condizione. Questo atteggiamento trova riscontro in tutti gli aspetti della vita umana, da quello politico-sociale a quello economico, religioso o quant’altro.
E’ forse questa la rappresentazione dell’eterna lotta fra bene e male illustrata da tutte le religioni?
E’ la prova che esiste al di là dell’evoluzione percepita o conosciuta, qualche altro tassello mancante per completare il quadro della creazione?
O più semplicemente l’incapacità ottusa di un individualismo esasperato che, pur di fronte a evidenti e consistenti vantaggi collettivi, oltre che personali, si ostina a perseguire la strada del conflitto e della competizione?
Credo di poter affermare, per esperienza personale, che si possa trattare di un mix di tutte queste componenti, essendo tutte compatibili fra loro e assolutamente integrate in un disegno evolutivo che possiamo guardare sia dal punto di vista esclusivamente materiale, sia integrandolo in una visione evolutiva di coscienza e d’anima.
Quando l’individuo raggiunge questa consapevolezza è facilmente identificabile: farà scelte volte principalmente, ma non esclusivamente, al benessere comune. Scelte che saranno conseguenti sul piano sociale, politico, economico e religioso.
Sarà schierato politicamente, e spesso a sinistra, perché da quella parte troverà un maggior riscontro al proprio ideale di condivisione, eviterà le religioni organizzate per avere una visione più libera e ampia non concependo l’idea di un Dio che sia più o meno vero di quello di qualcun altro. Sarà schierato sempre e senza tentennamenti dalla parte dei più deboli e della giustizia, sarà attento custode e difensore dell’ambiente e della vita, si batterà per la libertà e l’uguaglianza, sarà moralmente ed eticamente onesto, non perseguirà obiettivi che non siano di utilità collettiva. Un santo dunque? Assolutamente no, soltanto e semplicemente un individuo coscientemente compenetrato nella convinzione che una società solidale corrisponda anche ad interessi "egoistici" attraverso l' egoismo solidale, unica forma finora apprezzabile di evoluzione  per il singolo e la collettività.
D’altra parte anche il Cristo affermava: “Ama il prossimo tuo come te stesso!”. Notato? Non di più e non di meno, ma esattamente allo stesso modo, stimolando in maniera chiara l’essere umano verso quell’ equilibrio tra il proprio “io egoistico” e l’appartenenza, più o meno cosciente, ad una comunità.


MIZIO 

giovedì 12 settembre 2013

MILIONI DI MORTI IN CAMPANIA E NEL LAZIO?



...Passiamo alla seconda bomba (ma autentico tric trac per la melma mediatica quotidiana). L'ha lanciata con due interviste a Sky (e ad un paio di tivvù casertane) Carmine Schiavone, cugino del più noto Francesco, alias Sandokan. Tra una cifra e l'altra di morti ammazzati come noccioline nelle faide tra clan, si fa uscire una cifra rotonda: nei prossimi anni 5 milioni di morti nelle terre avvelenate di Campania e Lazio. Anche stavolta: strilli e titoloni su carta stampata? Altre tivvù a cercare di capirci meglio? Aule parlamentari in seduta permanente per far luce? Inquirenti, forze dell'odine e autorità di controllo a sirene spiegate? Sempre lo stesso, tombale silenzio. Un'omertà di Stato che più compatta non si può. Come se una colata di cemento – in perfetto stile mafioso – avesse cucito bocche, occhi e orecchie.

Eppure Schiavone – in modo terribilmente crudo, fino a scivolare per certe parti nel grottesco – ne ha raccontate di tutti i colori. L'avvelenamento è cominciato più di vent'anni fa, ora la situazione è irrecuperabile – questo il tono delle sue frasi – ogni bonifica non serve ormai a niente, la gente muore, i tumori crescono ogni giorno, arriveremo a 5 milioni di cadaveri. Una guerra, un'ecatombe. E altre cifre dello scempio: a metà anni '90 servivano 26 mila miliardi di lire, figurarsi oggi quanti, e per di più adesso inutili. La camorra ha comprato tutti, ha fatto affari con tutti, ha pagato perchè i controllori non controllassero e divenissero complici. Ha fatto i nomi di politici di prima e seconda repubblica, parlato di servizi deviati (come nel caso di Carmine Mensorio, il dc gavianeo atteso dai pm per una verbalizzazione bomba e “tuffatosi” dal traghetto che dalla Grecia lo avrebbe riportato in Italia: caso archiviato in un baleno dalla procura di Ancona come “suicidio”). Ha descritto (scivolando in una parodia alla Totò e Peppino) la sua passione per la facoltà di medicina e la sua abitudine a esaminare i “suoi” picciotti a caccia di esame facile, indossando il camice bianco con la complicità di baroni e accademici dell'epoca (ha fatto addirittura nomi, cognomi e cattedre interessate).

La cosa più incredibile è che Schiavone ha ora raccontato davanti a un microfono cose che aveva già cominciato a dire circa vent'anni fa. Agli inquirenti. E poi addirittura anche in commissione antimafia. In una verbalizzazione del 1996 in una caserma dei carabinieri del basso Lazio – riportata per ampi stralci dalla Voce circa un anno fa – Carmine Schiavone raccontava per filo e per segno zone di sversamento, quantitativi, indicava collusioni, complicità, faceva riferimento ad altri business, parlava di personaggi che solo dopo anni e anni balzeranno alla ribalta delle cronache giudiziarie (come l'avvocato pro Casalesi Cipriano Chianese), calcolava tangenti e mazzette, segnalava la somma globale che i clan potevano investire per i loro “soldati” e per comprare i silenzi. Parole al vento. Mentre gli sversamenti illeciti sono proseguiti a ritmo incessante. La stessa Voce, del resto, ha cominciato a descrivere i traffici di rifiuti super tossici fino dal fine degli anni '80, dettagliando – per fare solo due esempi – i ruoli di Gaetano Vassallo (un altro che ha cominciato a verbalizzare davanti agli inquirenti solo qualche anno fa) e dello stesso Chianese (in combutta con Licio Gelli, visti i frequenti viaggi della band, in compagnia di Francesco Bidognetti, alias Cicciotte 'e mezzanotte, in quel di villa Wanda, ad Arezzo). Fino ad un reportage del 2007, “Le nostre Seveso”, dedicato – tragiche cifre alla mano – alla morte annunciata (e parliamo di 6 anni fa) delle martoriate terre campane, che oggi va di moda chiamare “le terre dei fuochi”, e prima ancora “il triangolo della morte”.



Poche mosche bianche a raccontare quelle scomode, incredibili, dolorosissime verità. Un oncologo che per i più raccontava favole, Antonio Marfella (proprio oggi in audizione al Senato per dettagliare i numeri della tragedia annunciata), un colonnello dell'esercito toscano in pensione, Giampiero Angeli, le Assise di palazzo Marigliano, costola dello storico Istituto per gli Studi Filosofici fondato dall'avvocato Gerardo Marotta. Per il resto, una coltre di silenzio: tutto ok, tutto in ordine, secondo l'Arpac, costituita allo scopo di accertare la salute del territorio, nel tempo diventato un feudo mastelliano di collusione & coperture; tutto ok secondo la Regione, sia sotto il regno di Antonio Bassolino che quello dell'attuale governatore, l'ex psi Stefano Caldoro (al cui attivo anche i crac sanità e trasporti). E pensare che il registro-tumori in Campania (cardine per una lotta concreta contro il cancro, previsto e attuato praticamente in tutte le regioni del Paese) ha visto la luce solo qualche mese fa... Forse perchè ci vuole un registro da 5 milioni di pagine. Nere.
DI ANDREA CINQUEGRANI



mercoledì 4 settembre 2013

IL NEMICO DEL MIO NEMICO


Berlusconi è vivo e lotta insieme a noi!


La condanna in via definitiva per l’affare Mediaset lungi dal rappresentare la morte politica di un personaggio come il cavaliere d’Arcore cui, in altri paesi, non sarebbe mai stato permesso neanche di entrare in politica, figuriamoci di poter ancora accusare e arringare le folle (?) adoranti l’ultimo imperatore, sta rappresentando l’ennesimo atto di una farsa che da tempo è diventata ormai tragedia.
Incuranti dello stato comatoso della società italiana e dei suoi cittadini più deboli, di un’economia a brandelli, di una corruzione senza pari, di incapacità politiche e manageriali da far tremare, siamo ancora qui a discutere di lui e dei suoi deliri.
Dietro questo ci può essere solo l’incapacità politica? Il desiderio di mantenere in vita un governo contro-natura? O la lucida consapevolezza che caduto Sansone vengano sepolti anche i filistei?
Difatti, in questi lunghi anni di Seconda Repubblica, anche se nascosti dietro i soliti fumosi discorsi degli addetti ai lavori e azzeccagarbugli di turno, lo scenario politico italiano è stato di una semplicità e linearità  esemplare: o con Berlusconi o contro Berlusconi, la delegittimazione politica passava attraverso questa linea Maginot (ricordate il “voto utile”?)
Ci siamo fatti convincere (almeno molti di noi) che il cambiamento potesse passare dal votare coloro che lo stesso nano di Arcore indicava come comunisti feroci e mangiatori di bambini. Salvo accorgersi che, appena al governo, tutto si faceva meno che mettere il “nemico” nelle condizioni di non nuocere più, varando, ad esempio, la legge sul conflitto d’interessi, o la legge sulle frequenze TV. In compenso con l’alibi dell’entrata nell’Europa prima, e della crisi economica poi, sono state attuate politiche e promulgate leggi che, se fossero state soltanto accennate pochi anni prima, avrebbero provocato sollevamenti in tutto il paese con alla testa quei partiti e quei sindacati che adesso invece le attuano e le tollerano. Le peggiori leggi in materia di lavoro e diritti sono state approvate da uno schieramento bipartisan dando visibilità a un giochino che appare sempre più scontato l’antiberlusconismo è soltanto sbandierato per ottenere consensi promettendo alternative che, nella realtà, non si sono mai manifestate.
Oddio, riconosco che nello schieramento alternativo ci sono personalità di altro spessore e di altra storia rispetto a quelle del centrodestra, ma questo non cambia un giudizio che deve essere avulso da simpatie o stime e basarsi su fatti che hanno sicuramente una valenza maggiore.
Ma allora in questo quadro che, appare ormai chiaro, nelle sue linee guida, gli spazi per una politica che sia veramente alternativa a quella perseguita finora, che rimetta in discussione, ad esempio accordi economici e finanziari con l’Europa, che stanno strangolando interi popoli, che ponga al centro del dibattito politico non il lavoro ma i lavoratori (sembrerebbe la stessa cosa ma non lo è), che sia parte dirigente dell’economia e non spettatrice passiva (e interessata), che ponga in discussione un modello di sviluppo che ha mostrato tutti i suoi limiti e le sue ingiustizie di fondo, che non pensi ad ogni cambio di governo a modificare la Costituzione per poter avere le mani più libere, cosa si può e si deve fare?
Intanto cominciare col dire che non basta essere nemico del mio nemico per poter essere alleati, l’alternativa non si costruisce coi nomi, ma con programmi e idee. Grillo e i grillini hanno dimostrato, con tutti loro limiti e contraddizioni, che gli spazi e il terreno sociale per poter fare ciò esiste, ma bisogna cominciare a uscire da un circuito mentale che ruota intorno a se stessi. Fuor di metafora, non saranno personaggi come Camusso, Barca, Bettini o qualsiasi altro protagonista simile manifesti voglia di cambiamento, a poter dar vita ad una vera alternativa, se prima non fanno scelte coraggiose, in controtendenza e di rottura  con quelle seguite finora. Riconoscano che è  anche grazie a loro che i lavoratori italiani stanno diventando i cinesi d’Europa, sempre meno pagati e con sempre meno diritti. Che l’italiano usufruisce dei servizi peggiori d’Europa, pagando le tasse più alte, che le privatizzazioni e le liberalizzazioni soprattutto nei servizi pubblici non hanno portato benefici neanche nel campo puramente economico e sono state una Caporetto dal punto di vista dell’efficienza. Insomma riconoscano e accettino il fatto che non può essere l’antiberlusconismo il solo collante per unire in un programma comune forze ormai troppo diverse e che la chiave di lettura della società non può essere quella unica adottata sinora.
Altrimenti ha ragione Renzi e i suoi seguaci, bastano due slogan, rottamiamo questo e quello e poi, anche se le scelte politiche dicono il contrario (vedi appoggio a Marchionne, all’abolizione dell’art.18, all’acqua privata), ci presentiamo come l’alternativa a Berlusconi.
Ma temiamo che il popolo del PD sia ormai geneticamente modificato, almeno nella maggioranza dei casi, per poter fare analisi politiche che vadano oltre l’appartenenza a questa o quella corrente, convinti (magari sinceramente) che sia questa la cosa giusta.
Barca nel suo recente tour nelle sezioni PD si chiedeva amaramente: “ Ma dove sono gli operai nel PD?...” Già e se avessero avuto la bontà e la voglia di ascoltare altri che non fossero Berlusconi & co, forse lo saprebbero. Saprebbero che gli operai sono in cassa integrazione, in mobilità o legati per dieci o più ore al giorno al posto di lavoro per pochi spiccioli, grazie anche, se non soprattutto, alle scelte avvallate dai suoi compagni.
Si sarebbe reso conto che gli operai non hanno più il tempo e la voglia di seguire avanguardie che non li rappresentano più, dovendo molto più prosaicamente pensare a sopravvivere.
In questo deserto agghiacciante appare logico che anche il PD abbia tutto l’interesse a mantenere in vita (politicamente) Berlusconi, poiché, mancando lui, si scoprirebbe forse che anche il re di sinistra è nudo!
Lunga vita a Berlusconi!


MIZIO