lunedì 28 novembre 2011

SAN ZENO: IL COLLE DEI VIGLIACCHI

FONTE: FREEANIMALS





Come ogni autunno, anche quest’anno sul Colle San Zeno, in provincia di Brescia, e sugli altri principali valichi montani, attraversati dagli uccelli sulla rotta delle migrazioni, si sta consumando la mattanza.

Questo allucinante video ha fatto indignare gli internauti:





Era ora che qualcuno lo mettesse in rete, giacché altrimenti la carneficina di volatili sarebbe passata sotto silenzio, come ogni anno. La responsabilità di tale obbrobrio si spalma su vari livelli: i vertici politici regionali di Lombardia e Veneto, e le masse di cittadini inconsapevoli e disinformate.

I partiti che presero la decisione di approvare la caccia in deroga, che prima del golpe Monti erano sia di governo che d’opposizione, furono tutti concordi nell’accontentare quell’odiosa ed elettoralmente insignificante minoranza di poche migliaia di cacciatori e, soprattutto, quelle fabbriche di armi e munizioni che hanno sede principalmente in Val Trompia.

Un partito come la Lega Nord, che dovrebbe occuparsi del recupero delle culture e delle lingue minoritarie, preferisce fungere da collettore dei più retrivi valori agro-venatori, senza i quali perderebbe consensi e poltrone.

Il Partito Democratico, per contro, preferisce salvaguardare i posti di lavoro in fabbriche come la Beretta e la Benelli, piuttosto che schierarsi dalla parte della civiltà e dei cittadini che disapprovano la violenza sulla natura e sulla fauna.

Il Partito delle Libertà, d’altra parte, preferisce non ostacolare i consolidati meccanismi clientelari che permettono anche a loro di spartirsi una parte della torta, ed essendo schierato in parlamento con la Lega Nord, non può scontentare i propri alleati politici. 

Tutti, anche l’Italia dei Valori, presumibilmente quelli agro-venatori, lasciano che la strage si compia, a dispetto delle leggi europee che non la consentono. Tuttavia, questo balletto del tira e molla tra Unione Europea e regioni Lombardia e Veneto, con le immancabili sanzioni all’Italia che giungono da Strasburgo e che gravano su tutti i contribuenti italiani, si ripete con troppa regolarità per non farsi venire qualche dubbio. Potrebbe essere tutta una sceneggiata, come quella del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Cioè, gli animalisti potrebbero vedere nel parlamento europeo l’ente che tutela gli uccelli, e nelle amministrazioni locali quello che li distrugge. Manicheisticamente parlando verrebbe da pensarla così!

Tra i due contendenti s’inserisce la magistratura, che sembra quella meno colpevole di tutti. In questo caso, il Consiglio di Stato, che ha sospeso il decreto della caccia in deroga promulgato dalla regione Veneto e approvato dal Tribunale Amministrativo Regionale di quella regione: 

www.ilgazzettino.it 


(archivio)

Non voglio mettere in discussione la buona fede dei giudici del Consiglio di Stato, ma questo trucchetto è andato avanti per anni nella mia regione, il Friuli Venezia Giulia, dove si assisteva ogni autunno, da parte della Giunta Regionale, all’emanazione del decreto delle catture dei piccoli uccelli migratori mediante reti, con successiva sospensione da parte del T.A.R. di Trieste, ma solo dopo che erano passati i giorni migliori per “vendemmiare” gli uccellini giù dai roccoli, ovvero solo dopo che la migrazione di ottobre era passata. 

Anche in questo caso, gli ambientalisti erano indotti a credere che la magistratura fosse l’ancora di salvezza e l’ultima spiaggia di fronte a tanta crudele avidità legalizzata, se non fosse che gli assessori regionali che avevano emanato il decreto delle catture erano stati legittimamente eletti dai cittadini. 

E allora, chi stava dalla parte della giustizia? Gli uomini politici che concedevano i permessi agli uccellatori o i giudici del T.A.R. e del Consiglio di Stato che ne sospendevano la validità? A questa domanda nessuno ha mai risposto e mentre la sceneggiata si ripete ad ogni autunno, milioni di piccoli uccelli migratori crepano. 

D’altro canto, anche le masse di cittadini inconsapevoli e disinformate hanno le loro colpe. Come opinione pubblica siamo molto influenzabili e fragili nelle nostre valutazioni. Lasciando stare quella parte di popolazione che è coinvolta emotivamente ed economicamente nelle stragi di volatili, perché per esempio ama gustare la “polenta e osei”, il resto della popolazione, che è fondamentalmente buona, odia la guerra, la caccia e la violenza in genere, è portata con abili strategie di manipolazione mentale ad indignarsi per delfini e balene uccisi dai giapponesi e per i cuccioli di foca massacrati in Canada, ovvero per olocausti esotici su cui non abbiamo alcun potere d’intervenire e per i quali non bastano di certo semplici e sterili petizioni. Per inciso, anche Beppe Grillo fa quest’opera di disinformazione preoccupandosi dei delfini giapponesi e degli orsi della Luna in Cina e benché sia lodevole che almeno lui ne parli, resta pur sempre un modo per deviare l’attenzione da problemi che forse, con uno sforzo collettivo, potremo anche risolvere. Qui da noi. 

Se è valido il principio che dice: “Pensare globalmente e agire localmente”, gli utenti della rete e l’opinione pubblica in generale potrebbero essere coinvolti nei problemi di casa nostra, come le annuali stragi nel bresciano. Per tacere dell’inferno dei macelli, che abbiamo praticamente dietro casa. Perché questo non avviene?http://freeanimals-freeanimals.blogspot.com

domenica 27 novembre 2011

BIODIVERSITA' DA SALVARE A TUTTI I COSTI




Quando si parla dei cambiamenti climatici e socio-ambientali in atto, tendiamo a immaginare le peggiori situazioni catastrofiche proiettate nel futuro: lanciamo allarmi per quello che potrebbe essere, per le irrecuperabili perdite a venire o per il superamento di tanti punti di non ritorno rispetto all’attuale equilibrio geoclimatico, stabilitosi nel corso di migliaia e migliaia di anni. Eppure la catastrofe ecologica più importante, quella che ha e che avrà nell’immediato l’impatto più devastante sull’esistenza della specie umana la stiamo già vivendo. È la veloce perdita di biodiversità animale e vegetale in corso.
Un articolo della rivista Nature del settembre del 2009 (1) ha infatti posto all’attenzione di tutta la comunità scientifica e, volendo, dell’umanità in generale, il fatto che la perdita di biodiversità costituisce il primo problema che dovremmo fronteggiare, prima ancora del cambiamento climatico di cui tanto si parla. La stessa ONU – in un’insolita e tempestiva presa di coscienza – ha stabilito che il 2010 fosse l’anno dedicato alla biodiversità.
Ma cosa si intende esattamente con questo termine?
Una ricchezza incommensurabile
La biodiversità è la varietà degli esseri viventi, animali, vegetali e microrganismi, esistenti in natura. Inoltre si intende la varietà degli ecosistemi e dei loro equilibri. Lo stesso termine viene anche utilizzato per indicare la variabilità genetica all’interno di ogni singola specie e quel mondo di interrelazioni orizzontali e verticali tra i geni di tutte le specie e i legami che intercorrono tra esse. L’essenza della biodiversità è in sostanza la complessità nell’interdipendenza.
L’uomo non può astrarsi da questa interconnessione, sebbene gli ambienti artificiali che ha creato e in cui vive gli facciano sembrare la natura solo come un documentario per bambini in cerca di esotismo. Ma è “scientificamente dimostrabile” che sul cemento non cresce nulla, che la plastica non nutre e che un video, per quanto avvincente sia, non può sostituire la realtà che è il risultato dell’azione dell’essere umano nel suo ambiente naturale.
La questione della salvaguardia della biodiversità è ormai annosa. Già al vertice mondiale delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro del 1992 venne firmata dalle controparti nazionali una Convenzione per la difesa del patrimonio genetico e delle specie esistenti. Anche a Johannesburg, nel 2002, al vertice mondiale dedicato allo sviluppo sostenibile, i paesi europei presenti si posero l’obiettivo di fermare la perdita di biodiversità entro il 2010. Promessa che, come tutti possono constatare, dati alla mano, è stata ampiamente disattesa.
Ma ridurre la biodiversità non significa solo impegnarsi per salvaguardare l’habitat di alcune specie in via di estinzione come il camoscio o l’ululone appenninici (come sta facendo il WWF con l’assegnazione del premio Panda d’oro ogni anno).
Anche intervenire sulla molteplicità delle specie coltivate ha un impatto di non poco conto in questa lotta per la vita. Per fare un esempio, si dice che solo qualche decina di anni fa le specie di patata coltivate nel mondo fossero migliaia (2). Ora ne sono rimaste pochissime coltivate su una scala degna di nota (sebbene ci siano piccoli segnali di controtendenza). Idem per frumento o riso e altri cereali di importanza fondamentale per l’alimentazione umana. Questa riduzione di specie e diversità espone l’umanità a maggiori rischi di carestie dovute a patologie vegetali cui piante omologate in tutto il mondo non sarebbero in grado di far fronte.
Nei millenni, la saggezza contadina dei vari popoli ha saputo individuare e preservare le specie vegetali più adatte ai vari climi e alle varie situazioni parassitarie. È una pura follia procedere, come si sta facendo, a questa “semplificazione” ingenerata solo da necessità legate al profitto e alla commercializzazione.
Ma la biodiversità è anche meccanismo ecosistemico ampliato.
Ad esempio, la stabilità del clima dipende anche dalla dinamica della biodiversità, con i suoi influssi sulla circolazione delle acque e sulla fertilità dei suoli. Tranne che per un 1% di gas nobili, l’atmosfera è interamente il prodotto delle emissioni degli organismi viventi sulla superficie della Terra, umani compresi.
La quantità di specie viventi non è ancora stata fissata definitivamente dagli scienziati e le cifre che possiamo trovare nei vari testi e autori sono molto discordanti.
In linea di massima possiamo azzardare un’ipotesi di questo tipo. In natura esistono:
5000 virus
4000 batteri
70.000 funghi
40.000 protozoi
40.000 alghe
250.000 piante
45.000 animali vertebrati
70.000 molluschi
75.000 aracnidi
950.000 insetti
Ma secondo altre fonti e altri studi le cifre differiscono di molto. Ad esempio, si parla di 1 o 1,5 milioni di specie per i funghi, di 500.000 specie per le alghe e addirittura da 8 a 100 milioni di specie per gli insetti. Periodicamente vengono scoperte nuove specie. Solo in una zona orientale dell’Himalaya negli ultimi dieci anni (1998-2008) sono state scoperte 350 nuove specie, che rischiano di scomparire prima ancora di essere conosciute. In quella stessa zona, sono infatti a rischio di estinzione 10.000 specie vegetali, 300 di mammiferi, 977 di uccelli, 176 di rettili, 105 di anfibi e 269 pesci di acqua dolce (3).
Quello che balza agli occhi di fronte a queste cifre è comunque la ricchezza stupefacente della vita sul pianeta, risultato di 3,5 miliardi di anni di evoluzione. Miliardi di anni che stiamo vanificando in pochi decenni di distruzione pianificata a ritmo da catena di montaggio.
L’olocausto silenzioso: i numeri
La perdita della biodiversità si ha quando una specie o una parte del suo patrimonio genetico o un ambiente naturale scompare per sempre. Le attività umane, dirette o indirette, sono a oggi il massimo fattore di scomparsa di specie viventi sulla Terra.
Nell’ultimo Living Planet Report (2008) il WWF denunciava la perdita, negli ultimi trent’anni, del 30% di tutte le specie del pianeta (il 51% delle specie tropicali, il 33% di quelle terrestri, il 35% di quelle di acque dolci e il 14% di quelle marine). Il tasso di estinzione odierno è fra le 100 e le 1.000 volte superiore al tasso naturale, ossia a quello senza interferenza umana.
Dalle “Liste Rosse” dell’IUCN (Unione mondiale per la conservazione della natura) (4), la più importante fonte di studio e classificazione delle specie viventi in via d’estinzione, apprendiamo che su un totale di 47.677 specie studiate, circa 17.291 (il 36%) sono minacciate di estinzione. Di queste, 875 specie (circa il 2%) sono già estinte o estinte allo stato selvatico in natura. Sono inoltre minacciati il 21% dei mammiferi, il 30% degli anfibi, il 12% degli uccelli, il 28% dei rettili, il 37% dei pesci di acqua dolce, il 35% degli invertebrati, e, ancor più angosciante se lo può essere, il 70% delle piante.
Il professor Norman Myers, esperto di biodiversità all’Università di Oxford, ha affermato che: «La perdita rapida di biodiversità a cui stiamo assistendo, se non contrastata, sarà la più grande in 65 milioni di anni di vita del pianeta e potrebbe essere come le sei estinzioni di massa dell’intera storia della Terra. La speranza è rappresentata da una strategia di conservazione che tuteli i “punti caldi della biodiversità” nel mondo, ovvero le 34 aree con eccezionali concentrazioni di specie animali e vegetali che si trovano di fronte a una grave minaccia di scomparsa degli habitat naturali. Alcuni di questi “punti caldi” contengono gli ultimi habitat per almeno metà delle specie di flora e due quinti delle specie di fauna confinate in meno del 2% della superficie terrestre» (5).
Minaccia uomo
Ma quali sono le attività umane causa di questi sfacelo?
Vediamo le più importanti:
- agricoltura intensiva e uso di pesticidi e fertilizzanti chimici;
- cementificazione, urbanizzazione del paesaggio, costruzione di strade e ferrovie e disseminazione degli abitanti su territori vasti con conseguente frazionamento di molti spazi e ambienti vitali per gli animali
- costruzione di barriere artificiali di vario tipo che riducono lo scambio fra le specie viventi e la possibilità di muoversi delle stesse;
- incanalamento e deviazione di corsi d’acqua, scomparsa di acquitrini, stagni e laghetti, alterazione degli equilibri idrici;
- deforestazione;
- eutrofizzazione dei mari da inquinamento;
- mutamenti climatici dovuti ai gas serra;
- industrializzazione selvaggia e diffusione di sostanze difficilmente o per nulla biodegradabili (plastica, sacchetti, veleni ecc.);
- piogge acide da inquinamento atmosferico;
- inquinamento luminoso e acustico;
- attività turistiche e di svago;
- specie invasive trasportate inavvertitamente che colonizzano territori dove non hanno antagonisti naturali;
- caccia e/o sfruttamento economico di particolari specie.
Il costo economico
Tutto questo ha un costo astronomico per l’umanità, anche dal punto di vista economico.
Purificazione di acqua e aria, protezione delle coste dalle tempeste, eutrofizzazione dei mari, mancata impollinazione, conservazione delle aree naturali costituiscono sicuramente un costo aggiuntivo di rilievo.
È stato calcolato che i costi del degrado degli ecosistemi a causa di una riduzione del tasso di biodiversità pari al 15% entro il 2050 sono quantificabili in qualcosa come 50 miliardi di euro l’anno (6).
Entro il 2050 la perdita di biodiversità costerà all’Europa 1.100 miliardi di euro (7). Che pagheremo noi. Con il nostro lavoro e la perdita di qualità delle nostre vite.
Secondo i ricercatori del progetto TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity) che si pone il fine di determinare in denaro i servizi che la natura garantisce agli esseri umani senza alcun costo, la perdita annuale delle foreste ci costa qualcosa come 2-5 trilioni di dollari (8).
Per avere un’idea della pusillanimità politica generale basti pensare che il budget messo a disposizione dall’Unione Europea per la tutela della biodiversità è di 120 milioni l’anno, meno dello 0,1% di quello totale europeo. Mangeremo polistirolo…
Sempre secondo Myers, le cifre da mettere in campo sarebbero decisamente diverse per ottenere risultati: «Si potrebbero salvaguardare i “punti caldi” della biodiversità con un bilione di dollari l’anno. Bisognerebbe sentire questo costo economico come un investimento. Basti pensare al grande valore commerciale delle innumerevoli medicine e dei prodotti farmaceutici basati sulle proprietà delle piante che si aggira intorno ai 60 bilioni di dollari l’anno» (9).

Le azioni personali
Se non possiamo aspettarci nulla dalle istituzioni preposte e dai nostri rappresentanti politici, allora che fare?
Ci permettiamo qui di elencare alcuni consigli su scelte che, se applicate quotidianamente ed estese orizzontalmente alla base della società, possono piano piano fare la differenza.
- Coltivare la terra in modo organico per permettere la rigenerazione della vita dei microrganismi. Raccogliere dei semi del proprio orto e giardino e riseminarli di anno in anno anche in vasi sul terrazzo per chi non ha terreno. Seminare piante e fiori autoctoni e di specie antiche, magari appoggiandosi alle banche dei semi che stanno nascendo in vari luoghi. Ovviamente è conseguenza diretta di quanto precede il privilegiare il consumo di prodotti biologici e locali.
- Mangiare in modo consapevole, evitando piatti a base di animali e soprattuto di quelli in via di estinzione o a rischio come zuppa di tartaruga, sushi di tonno rosso, cetriolo di mare ecc. Evitare anche prodotti alimentari che hanno un impatto importante sulla biodiversità come quelli derivanti da caccia o pesca che non rispettano la taglia minima, le specie protette ecc. Senza contare il cibo carneo (es. hamburger) o le colture “energetiche” (es. olio di palma per biodiesel) che derivano dalla deforestazione di vaste zone del mondo.
- Boicottare, se possibile, medicine “tradizionali” o cosmetici ricavati da animali o piante che stanno scomparendo (es. corno di rinoceronte, muschio di cervo, ossa e interiora di tigre ecc.).
- Installare nidi artificiali per agevolare la riproduzione degli uccelli in ambienti urbanizzati.
- Attivarsi per favorire la nascita di riserve naturali o parchi protettivi nella propria zona e soprattutto in areali rimasti isolati a causa della presenza circostante di ampie zone cementificate o con strade ad alto traffico.
- Consumare di meno e acquistare il necessario. Uscendo dalla mentalità dello shopping fine a se stesso eviteremo di consumare il pianeta e le sue risorse e di vederle trasformare in rifiuti intossicanti per tutte le forme viventi.
- Aprire la propria casa solo a materiali naturali, evitare il più possibile plasticoni, prodotti tossici, detersivi devastanti, imballaggi “da discarica immediata” ecc.
- Risparmiare sulle fonti energetiche utilizzate in tutte le maniere possibili (trasporto, riscaldamento, illuminazione ecc.). Di modi oggigiorno ce ne sono molti. Ogni diminuzione di gas serra aumenta le possibilità di futuro della biodiversità e quindi anche la nostra.
- Impegnarsi per cambiare lavoro se la propria attività è dannosa per la vita e la gioia sul pianeta. Meglio un lavoratore attivo in un comparto produttivo etico ed ecologico che mille volontari ecologisti nel tempo libero.
- Fermarsi ogni tanto a contemplare la natura. Basta anche osservare l’impegno e la dignità eccezionale con cui si muove e lavora una formica per la sua comunità. Percepire il senso di unione tra gli esseri viventi e la condivisione di un destino esistenziale comune aiuta a rispettare la vita in ogni sua forma.


Il valore della vita
Al di là di della riflessione che sino ad ora abbiamo portato avanti – e che per certi versi ricade sempre nell’alveo noto dell’utilitarismo che contraddistingue purtroppo questa società – ci premeva sottolineare che la biodiversità della vita ha un valore di per sé, indipendentemente dal fatto che noi umani possiamo trarne o meno dei benefici.
Ossia c’è, a nostro parere, la necessità assillante dell’assunzione di una responsabilità morale nei confronti del pianeta e degli esseri che lo abitano. Questa dovrebbe essere semplicemente la manifestazione della nostra umanità e della nostra intelligenza e rispetto per la vita in sé.
Se tuttavia ciò non bastasse, possiamo comunque ricordare che gli effetti devastanti della perdita di biodiversità incombono su molteplici aspetti cruciali della nostra esistenza come la fertilità dei suoli, il loro consolidamento e l’eliminazione dei rifiuti in essi contenuti a cura dei microrganismi che li abitano. E poi regolazione del clima e del bilancio idrico, produzione di piante medicinali e di cibo sano. Non ultimo, senza biodiversità niente possibilità di contemplare la variegata bellezza e armonia del mondo naturale.
Quando avremo perso tutto questo, a ben poco varrà vedere l’ultimo bellissimo videodocumentario del National Geographic. di Valerio Pignatta

IL DEBITO OCCULTO PER NUCLEARE E TAV

Paolo Flores D'Arcais, pur senza manifestare un particolare entusiasmo, ha salutato nel governo Monti l'epifania di una destra finalmente "presentabile" e "civile". Uno che è stato pronto a credere che la NATO potesse andare in soccorso di una vera ribellione popolare, è disposto anche a credere che possa esistere una destra presentabile e civile. A riguardo della sinistra si potrebbe sempre dire ciò che Nietzsche diceva a proposito di Dio, e cioè che almeno ha la scusante di non esistere; dato che ciò che viene definito come "sinistra" non è altro che una nicchia di parcheggio per personale politico che attende l'opportunità di collocarsi a destra. Ma una destra che non insolentisca e che non sbrachi, non si è mai vista, neppure nelle mitiche democrazie europee, rispetto alle quali l'opinione pubblica italiana risulta semplicemente non informata.





I primi segnali di sbracamento del governo Monti non si sono fatti neppure attendere: una dichiarazione del neo-ministro dell'Ambiente, Clini, sull'opportunità del ritorno al nucleare, è stata immediatamente lanciata sui media, salvo poi ricorrere alla consueta tecnica di rabbonire e di parlare di "equivoco". Clini ha persino invocato come "alibi" il suo impegno nelle energie rinnovabili, come se il rifiuto del nucleare avesse bisogno di prospettare alternative. Il nucleare è invece insostenibile di per sé, a causa dei suoi costi incontrollabili; e rimarrebbe insostenibile persino se il solare e l'eolico dovessero deludere le aspettative. Intanto Clini ha lanciato il sassolino, ed è cominciata la progressiva delegittimazione del risultato dei referendum.

Che in presenza di un'emergenza/debito pubblico si prospettino ancora quelle voragini di spesa pubblica che sono il nucleare e l'Alta Velocità, non risulta affatto una contraddizione, se si considera come e perché questo debito è stato fatto lievitare negli anni recenti. Sino all'inizio degli anni '90, il debito pubblico italiano era soprattutto un debito interno. Progressivamente è diventato anche un debito nei confronti di banche straniere, in gran parte francesi, come la mega-multinazionale BNP Paribas, che detiene oggi anche la proprietà della BNL, la banca italiana che prima apparteneva al Ministero del Tesoro (a proposito di privatizzazioni suicide). 

L'altra multinazionale francese interessata al debito pubblico italiano è Credit Agricole, che possiede anche Cariparma. Entrambe le banche francesi hanno però ridotto negli ultimi mesi l'esposizione nei confronti dei titoli italiani. La BNP Paribas ha ridotto la sua esposizione dai 20,2 miliardi del mese di giugno scorso, agli attuali 12,2 miliardi.

Ormai è acquisito che l'attacco al debito pubblico italiano sia stato avviato da Deutsche Bank e da Goldman Sachs, ma certo anche BNP Paribas ha un considerevole peso che può far valere nelle circostanze attuali. Come mai le banche francesi si erano interessate al debito pubblico italiano? Perché occorreva finanziare le pensioni-baby degli Italiani? No, per favorire determinati affari, anzitutto la vendita di tecnologia nucleare. I fornitori di tecnologia per il nucleare italiano voluto da Berlusconi e Scajola avrebbero infatti dovuto essere due multinazionali francesi del settore, la EDF e la Areva. 



La BNP Paribas risulta essere infatti una delle banche maggiormente interessate al business nucleare, ed è il principale partner della EDF, che è stata anche aiutata da BNP ad acquisire imprese nucleari in Gran Bretagna, come la British Energy. La notizia si trova sul sito di BNP Paribas.
A questo punto qualcuno si sorprenderebbe nel constatare che multinazionali francesi, come la Alstom, forniscono all'Italia anche i treni ad alta velocità? 

Ebbene è proprio così. Ce lo conferma proprio un articolo de "Il Sole-24 ore", collocato in tutta evidenza nella rassegna stampa presente sul sito del precedente governo. 

Qualche sospettoso potrebbe adesso ipotizzare che BNP Paribas sia interessata anche al settore dell'alta velocità in Italia. Il sospetto è confermato: BNP Paribas ha in effetti acquistato in Italia dei lotti di terreno che dovrebbero essere riconvertiti in aree per ferrovie ad alta velocità, come quelli di Roma Tiburtina appena nell'ottobre scorso.

Manca qualcosa al quadro? Sì, occorrerebbe sapere qual è la banca di riferimento della multinazionale francese dell'alta velocità, la Alstom. Dal sito della stessa Alstom risulta che sia sempre BNP Paribas. A questo punto il legame tra il debito pubblico italiano ed i business del nucleare e dell'alta velocità costituisce più di una semplice ipotesi.

Il business dell'alta velocità in Italia coinvolge anche i privati, come il prezzemolo Luca Cordero di Montezemolo; ma in definitiva è "privato" solo il profitto, perchè è sempre lo Stato che deve spendere per fornire le infrastrutture. Qui è scoppiato in modo clamoroso il conflitto di interessi di Corrado Passera, nuovo ministro delle Infrastrutture ed ex manager della Banca Intesa San Paolo, che ha una quota del 20% nell'azienda ferroviaria di Montezemolo e Della Valle, Nuovo Trasporto Viaggiatori. 

Le multinazionali francesi hanno compiuto una tipica operazione di colonialismo commercial-finanziario: si compra il debito di un Paese per costringerlo ad acquistare i propri prodotti, specialmente i più costosi e meno convenienti. Visto che le resistenze popolari in Italia, come il referendum antinucleare e l'anti-TAV, hanno ostacolato gli affari, allora il debito pubblico è diventato un'arma di ricatto. Ed ecco perché, in piena emergenza-debito, l'Alta Velocità non si tocca e si torna in modo strisciante all'ipotesi del nucleare. 
http://www.comidad.org

mercoledì 23 novembre 2011

L'ALTA VELOCITA' E' DAVVERO UN AFFARE?



Le linee dei treni ad alta velocità raramente si ripagano da sole. Il governo britannico potrebbe abbandonare il progetto per costruirne una.
All’inaugurazione della ferrovia Liverpool-Manchester nel 1830, un politico fu ucciso perché non riuscii a vedere un treno che stava arrivando. Non è stata l’ultima occasione in cui una nuova linea ferroviaria ha avuto conseguenze inattese. Le ferrovie vittoriane inaugurarono un’era di prosperità; oggi i politici di tutto il mondo sviluppato sperano in treni più rapidi, che si spostano a più di 400 chilometri l’ora. Ma i treni ad alta velocità raramente portano quei benefici economici paventati dai suoi sostenitori. Il governo britannico – l’ultimo a essere sedotto da questa visione di modernità – potrebbe ripensarci (vedi articolo del "The Economist").



I dibattiti sui treni ad alta velocità si accavallano ovunque. Sei paesi hanno stanziato forti somme per i treni “missile”: Giappone, Francia, Germania, Spagna e, più di recente, Italia e Cina. Australia, Portogallo e Indonesia stanno prendendo in considerazione nuove linee. E il governo britannico sta valutando un progetto per 32 miliardi di sterline per un collegamento tra Londra e il nord dell’Inghilterra. Ma ovunque queste iniziative stanno arrancando: in luglio la Cina ha sospeso i nuovi piani dopo una collisione fatale di due treni ad alta velocità; il Brasile ha ritardato la progettazione di un collegamento rapido tra Rio di Janeiro e San Paolo, dopo la mancanza di interesse da parte delle aziende costruttrici. Ma i governi rimangono ancora dell’idea che queste iniziative possono diminuire le disuguaglianze regionali e promuovere la crescita.




Nella realtà dei fatti, nella maggior parte delle economie sviluppate, le linee ad alta velocità non riescono ad appianare le differenze e qualche volta le aggravano. Migliori collegamenti rafforzano i vantaggi di una città ricca nel centro di smistamento della rete: le aziende delle regioni ricche possono raggiungere un’area più vasta, minando le prospettive delle zone più povere. Persino in Giappone, che ha le linee commerciali di maggiore successo, Tokyo continua a crescere più di Osaka. Le nuove linee ferroviarie spagnole hanno ingrossato il numero delle imprese madrilene a spese di quelle sivigliane. La tendenza in Francia è quella di trasferire i quartier generali a Parigi, per stare solo pochi giorni nel resto del paese.
Anche se qualche città ne trae benefici, i luoghi che rimangono fuori dalla rete ferroviaria ne soffrono: la velocità è raggiunta in parte grazie alla riduzione delle fermate, e quindi le aree che sono già ben servite dai servizi esistenti potrebbero trovarsi su nuove linee da cui sono escluse. Alcune zone della Gran Bretagna, ad esempio, temono che una nuova struttura ferroviaria rapida possa creare una seconda schiera di città servite da treni più lenti e meno numerosi.
I vantaggi, intanto, andranno principalmente a chi viaggia per affari. In Cina i prezzi dei biglietti sono al di sopra delle possibilità della maggioranza delle persone, e per questo i nuovi treni viaggiano quasi vuoti. Visto che ancora le linee ad alta velocità richiedono enormi investimenti – di solito da parte dei governi – alla fine sono i contribuenti a pagare. Quindi, invece di ridistribuire la ricchezza e le opportunità, le regioni e le persone ricche ne traggono vantaggio a spese dei più poveri.


Avanti tutta
Le ferrovie ultraveloci hanno i loro vantaggi. Sono un buon sistema per limitare i viaggi in aereo e le emissioni, particolarmente dove, come in Cina, collegano nuclei abitativi distanti ma densamente abitati. Sulle rotte più corte, i vantaggi si assottigliano: non riescono a trasformare una regione e non possono replicare i vantaggi presenti nelle reti più larghe. E va detto che non esistono i collegamenti ad alta velocità tirati su con poco: le falle della sicurezza in Cina hanno evidenziato i pericoli del lesinare su ogni cosa. Allo stato attuale, per la maggior parte dei luoghi, i benefici marginali di queste fantastiche conquiste dell’ingegneria, parlando di riduzione dei tempi di percorrenza, vengono soppressi dai costi elevati.
E questi costi fanno diminuire le risorse da utilizzare per reti più semplici, ma più efficienti. Specialmente nelle nazioni più piccole, il miglioramento delle linee esistenti ha sicuramente più senso. La capacità potrebbe essere aumentata con treni più lunghi e una larghezza ampliata. Alcune vetture di prima classe potrebbero essere convertite nelle carrozze più compresse di seconda; differenziando i prezzi si potrebbe meglio gestire la domanda nelle ore di punta. Un miglior sistema segnaletico potrebbe aumentare la velocità media dei viaggi. In Gran Bretagna i treni non ad alta velocità, ad esempio, sono già più veloci degli equivalenti che sono presenti in molti altri paesi. Alcuni treni che attualmente viaggiano a 125 miglia all’ora potrebbero andare anche più veloci se la segnaletica venisse adeguata, ma per i politici potrebbe essere più appetibile inaugurare un nuovo e futuristico servizio invece che togliere la copertura a un pannello segnaletico.
Il Regno Unito ha ancora tempo per sbarazzarsi del suo grande progetto infrastrutturale, e dovrebbe farlo. Altre nazioni dovrebbe ripensare a questi piani per espandere o introdurre nuove linee. Un buon schema di infrastrutture ha una lunga vita. Ma uno pessimo può far deragliare sia le finanze pubbliche che le ambizioni di sviluppo di un paese. (orig.The great train robbery)

lunedì 21 novembre 2011

L'EURO È UNO STRUMENTO PER SCHIACCIARE LA CLASSE OPERAIA?





L'economista Pedro Montes inaugura il seminario dell'Accademia del Pensiero Critico di Socialismo21
La maggior parte delle analisi della redditività della zona euro e i benefici (o meno) di rimanere nella moneta unica sono inseriti, con poche eccezioni, nel quadro dell'ortodossia neoliberista e incorrono in un'inflazione di cifre e tecnicismi. Ma al di là di queste analisi funzionali al sistema, cosa è l'euro? “Uno strumento nelle mani dei poteri economici per schiacciare la classe operaia”, risponde l'economista Pedro Montes dopo trentasei anni di lavoro nel Dipartimento Studi del Banco di Spagna.
La borghesia europea, spiega Montes , "ha basato tutti i suoi progetti per più di dieci anni nella creazione di una moneta unica, l'euro è una cosa meravigliosa per gli imprenditori." Perché? Perché con l'unione monetaria (dal 1999), gli stati non hanno più la possibilità di svalutare (o rivalutare) le monete, in caso di svalutazione per migliorare la capacità di vendere all'estero. Quindi rimane una sola possibilità per migliorare la competitività (parola tanto cara al discorso neo-liberista): attaccare i salari e, di conseguenza, ridurre i costi del lavoro. "Ciò ha notevolmente facilitato lo sfruttamento della classe operaia", ha aggiunto l'economista.

Pedro Montes ha sviluppato questi pensieri nel primo seminario dell'Accademia del pensiero critico, dal titolo "Crisi finanziaria e stagnazione economica: ritorno all'economia reale" che si è tenuto lo scorso 26 ottobre presso la Scuola di Ingegneria Agraria dell'Università Politecnica di Valencia.
"Il disegno della moneta unica è stato un errore fin dall'inizio", ha concluso l'economista membro di Socialismo 21, in particolare per i paesi della periferia europea. Questa idea può essere dimostrata con le cifre: il debito estero dello Stato spagnolo è passato da 155 miliardi di euro nel 1998 (un anno prima che l'euro entrasse in vigore) a 964 miliardi nel 2009 (in coincidenza con l'inizio della crisi). Nello stesso periodo, il passivo degli scambi con l’estero è passato da 540 miliardi di euro a 2,4 trilioni. Alla fine, "il neoliberismo ha costruito un mostro insensato, dal quale non c'è via di fuga e tutti gli esperti lo sanno", ha detto Montes.
Paul Krugman ha sottolineato un anno e mezzo fa le due opzioni che restavano ai paesi della periferia europea. Uno, svalutare e poi fuori dall'euro, la seconda una manovra dura per dimunuire prezzi e salari, in modo da ottenere gli stessi effetti che la svalutazione. Venne presa la seconda alternativa, ma secondo Pedro Montes, "i problemi non sono stati assolutamente risolti". "Ora non ci resta che seguire l'euro, che sarebbe una catastrofe, o rompere con la moneta unica, che sarebbe il caos", ha detto Montes con un realismo ironico. Inoltre l'autore dei "L'integrazione in Europa. Dal Piano di stabilizzazione a Maastricht " (1993) e "Il disordine neoliberista" (1996), afferma che "rimanere nell'euro non è più un'alternativa, dato che sarà impossibile".
Quindi, il dibattito è aperto su due posizioni: attuare le riforme necessarie (tra cui quelle progressiste) per salvare l'unione monetaria e, d'altra parte, l'alternativa alla quale Montes si unisce, "che il mostro dell'euro scompaia perché, anche se è una catastrofe, almeno permetterà di costruire una nuova Unione Europea". L' economista non crede che "con una sinistra debole e divisa, e con l'attuale equilibrio di forze, possano essere implementate riforme progressiste nel contesto attuale dell'Unione Europea." Questo si poteva già presumere un decennio fa, anche se nessun esperto lo disse: "Con un’unione monetaria forgiata da diverse economie, fiscalità divergenti e un magro bilancio che rappresenta solo l'1% del PIL europeo (quello di ogni stato nazionale rappresenta tra il 40 e il 50% del PIL).
E che dire ai cittadini? Ai più alti livelli è stato deciso che siano loro a pagare la crisi e che senza discutere sostengano le modifiche e i tagli. Meno informazioni ci sono e meglio è. Secondo Pedro Montes, "c’è una costante guerra di numeri e dichiarazioni dove alla fine ci si perde, e succede anche agli economisti che studiano la questione, è meglio non fidarsi di nulla, perché si parla sempre di miliardi, ma dove sono? Non si ha alcuna sicurezza sulle dimensioni del mostro finanziario che è stato creato e che nessuno può controllare." Per dare un esempio dell'opacità, prendiamo il termine "salvataggio". "Questa parola è veleno puro, non viene salvato nessun paese. Ciò che viene fatto è concedere prestiti ai paesi in difficoltà ma senza liberarli dai debiti e, d'altra parte, nemmeno i paesi centrali hanno i soldi per un vero salvataggio".
Quello che sta accadendo, ha detto Pedro Montes, è "un gigantesco trasferimento di ricchezza o, in altre parole, la socializzazione delle perdite delle istituzioni finanziarie, che vengono trasferite alle istituzioni pubbliche e ai cittadini". Questo è ciò che non viene raccontato. Inoltre, la cosiddetta crisi del debito sovrano "è di tale portata che non ha soluzione, nonostante ulteriori incontri e riunioni europee". L'economista di Socialismo 21 ha elencato tre ragioni per sostenere il suo punto di vista: il deficit enorme dei paesi, l'accumulo di questi deficit che creano una massa debitoria sempre in crescita e la chiusura dei rubinetti del credito, il tutto in un contesto di grave recessione.
E' certo che la situazione attuale favorirà nuovi dibattiti. Uno dei punti essenziali sarà ripensare la globalizzazione e che gli stati-nazioni possano recuperare una parte del loro potenziale, per esempio, per controllare le loro valute e l'imposizione di dazi, che permetterà alle economie più deboli di difendersi. "E questo non significa cessare di essere europeisti”, spiega Pedro Montes, “ma puntare a un’Unione progressista con la redistribuzione della ricchezza e dei diritti sociali".
Un altro dibattito urgente di fronte a una crisi che definisce "storica" perché "cambierà profondamente l'economia e la società" è quello che deve essere affrontato dalla sinistra. L'economista auspica una "rottura" con il sistema dato che "con il quadro attuale non c'è possibilità di riforma". Inoltre, "se anche si risolvesse la crisi, questa riemergerebbe il giorno dopo perché resta la radice di tutti i mali: il modo in cui è stata concepita l'Unione Europea".
In questo contesto, "gli imprenditori cercano di ottenere quanti più benefici possibile e, dopo aver ottenuto immediatamente una controriforma, ne hanno bisogno subito di un'altra; insomma, sanno molto bene ciò che vogliono, mentre la sinistra ha paura e ha molti dubbi." Tuttavia, "alla sinistra non compete risolvere una crisi che non ha generato, dobbiamo farci forza per la battaglia estenuante che si avvicina e approfittare delle opportunità che si presenteranno in futuro e che non abbiamo avuto un anno fa, quando nessuno ancora metteva in discussione il capitalismo", conclude Montes lasciando una finestra aperta all'ottimismo .

DI ENRIC LLOPIS
Rebelion.org
http://www.comedonchisciotte.org

domenica 20 novembre 2011

IN FRANCIA SEMPRE PIU' SCETTICISMO


Sorprendenti risultati di un sondaggio in Francia:


La grande maggioranza dei francesi ha identificato i danni provocati dal libero scambio sulla propria economia, al punto che si può parlare di una forte presa di coscienza che supera le cornici dei partiti politici e che viene espressa da quasi tutti gli strati sociali. La vecchia opposizione tra i diplomati e i non diplomati che era presente all'epoca del referendum del 2005 non c’è più. Il popolo francese oscilla tra la rivolta e la rassegnazione, questo è il primo dato del sondaggio.
  • Il 48% delle risposte indica che le persone intervistate sono “stufe” della situazione economica della Francia, mentre il 30% afferma di essere “rassegnato”. Solo il 14 per cento ha fiducia o è entusiasta.
  • La categoria sociale dove predomina il sentimento di rivolta è quella degli operai (il 64%), seguiti degli artigiani e dai piccoli commercianti (il 55%) e dagli impiegati (il 52%). Il sentimento di rivolta è più debole nelle libere professioni e tra gli alti dirigenti, ma raggiunge comunque il 36%.
I. Uno sguardo critico e argomentato sulla globalizzazione e il libero scambio
La domanda principale verte sulla valutazione dell'apertura delle frontiere alle merci di paesi come Cina e India e dei paesi emergenti a livello globale. I risultati manifestano di un rigetto massiccio della globalizzazione.
Un giudizio negativo è presente nel 73% delle risposte per ciò che riguarda il passivo di bilancio, nel 78% per ciò che riguarda il livello degli stipendi e nel 84% per ciò che riguarda il mondo del lavoro.
Notiamo anche che la percentuale di risposte che indicano come queste conseguenze possano avere lati molto positivi è solamente del 7%, 12 volte meno rispetto alla percentuale di quelli che considerano queste conseguenze come negative o molto negative.
Questo giudizio è senza appello. Sulle tre grandi domande che riguardano l'economia, l'impiego, gli stipendi e il deficit, la schiacciante maggioranza dei francesi ritiene che l'apertura dell'economia ha avuto conseguenze nefaste. Evidententemente, la "globalizzazione felice" esiste solamente in certi giornali o per alcuni scrittori.
Questa apertura è comunque considerata come negativamente per i paesi sviluppati (il 52%) e per la Francia in particolare (il 57%). È anche una cosa negativa per la sicurezza dei prodotti distribuiti in Francia (il 71%), per i salariati (il 72%) e per l'ambiente naturale (il 73%). La coscienza dei risultati negativi dovuti all'apertura non si limita quindi agli aspetti sociali. Tocca anche la richiesta di sicurezza dei beni di consumo e quella degli alimenti, così come dell'ambiente naturale. Appare sempre più forte la presa di coscienza che ci sia una contraddizione radicale tra il libero scambio e la preservazione dell'ambiente naturale.
Quando si è chiesto alle persone intervistate di proiettarsi nel futuro, il 75% ha risposto che l'apertura avrà conseguenze negative sull'impiego nei prossimi dieci anni. Il 70% di è quindi opposto all'assenza o la debolezza dei dazi doganali sui prodotti che provengono dai paesi emergenti e il 65% è a favore del rialzo di queste tariffe. Le conseguenze di una politica protezionistica sono percepite in modo favorevole per proteggere le conoscenze francesi (il 59%), per le attività dell'industria (il 57%), per il mondo del lavoro (il 55%) e per la crescita (il 50%).
La gran parte delle persone intervistate ritiene che l'Europa debba ripristinare alcune politiche protezioniste (80%). Ma, nel caso ci fosse un rifiuto dei partner europei di acconsentire a queste iniziative, il 57% degli intervistati ha risposto che la Francia dovrebbe proseguire da sola. Ciò non si potrebbe esprimere meglio che con la frase "Con l'Europa se si può, con la Francia se occorre, contro l'Europa se si deve!
II. Un fenomeno che trascende i partiti e le posizioni sociali
Questa ultima domanda è davvero sintomatica perché concentra al tempo stesso il problema del protezionismo e quello di una possibile azione unilaterale della Francia. In un certo modo, ritrova in equilibrio con le posizioni dei Verdi. Gli elettori dell'UMP e del PS sostengono in modo forte il principio di una politica unilaterale (58% e 56%) a dispetto delle posizioni pro-europee di questi due partiti. Come ci si poteva aspettare, queste posizioni sono un plebiscito per le persone che sono vicine della Fronte di Sinistra e al Fronte Nazionale (il 73% nei due casi). Ma questi risultati si inseriscono in una tendenza generale. I dati del Fronte di Sinistra e del Fronte Nazionale indicano che sono più vicini a una posizione di influenza sulla sinistra e la destra moderata che a una di opposizione. I risultati in base alle categorie socio-professionali confermano questo giudizio. Se il 60% degli operai ritiene che la Francia debba applicare dei diritti di dogana alle sue frontiere in caso di rifiuto o di insuccesso di una soluzione concertata europea, le percentuali degli artigiani e piccoli commercianti (il 63%), quelle degli impiegati (il 57%), ma anche, a sorpresa, degli alti dirigenti e dei liberi professionisti (il 56%) non sono molto differenti.
C'è dunque una contraddizione evidente tra gli elettori e i principali partiti (PS ed UMP) sulla questione europea. Invece, il Fronte di Sinistra e il Fronte Nazionale sembrano più coerenti con i propri elettori. Non ne dubitiamo: se domani dovesse essere organizzato un referendum su questo argomento, finirebbe con un nuovo rinnegamento della classe politica e dei grandi mediacome nel 2005. Del resto, il 61% delle persone intervistate si è pronunciato a favore di una petizione per l'organizzazione di un dibattito a livello europeo contro il 21% di quelli che vi si oppongono.
Questo giudizio estremamente negativo viene confermato se si prende in considerazione l'affiliazione politica (la percentuale massima, il 90%, è stata rilevata tra coloro che sono vicini al PS e quella minima, l’82%, a quelle prossime al MODEM). Si ottiene un risultato simile se si prendono in esamee i candidati all'elezione presidenziale del 2007 (il 90% delle persone che hanno votato per Ségolène Royal hanno questo giudizio negativo contro il 86% di quelli che per François Bayrou).
Si osserva un risultato analogo riguardo le conseguenze del libero scambio se si considera il livello degli stipendi. Un giudizio molto negativo, con la stessa percentuale, è espresso dai vecchi elettori di Ségolène Royal e di Jean-Marie Il Pen (l’89%) e solamente dal 72% degli elettori di Nicolas Sarkozy. I simpatizzanti del MODEM sono certo i meno convinti, sebbene la percentuale sia del 72%, ma è superiore all’80% per tutti i partiti di sinistra e per i Verdi, e all’86% per il Fronte Nazionale.
L'impatto di quest'apertura sui salariati francesi è giudicata negativamente dalla gran maggioranza dei simpatizzanti di tutti i partiti e anche dalle persone che non hanno votato alle elezioni presidenziali.
Ma le divergenze tra le posizioni della dirigenza o dei futuri candidati dei partiti centrali dello scacchiere politico francese (PS ed UMP) e quelle dei loro elettori non potrà essere maggiore di quella sull’analisi della conseguenze della globalizzazione.
Gli intervistati sperano che questo protezionismo possa essere introdotto a livello europeo. Ma, allo stesso tempo, non sono sciocchi. Sanno per certo che la costruzione europea è diventata un'enorme macchina che produce regolamenti, ma non azioni politiche. Allora, di fronte a a questa realtà incontrovertibile, esprimono anche una forte richiesta di soluzioni che vengano elaborate in ambito nazionale.
La scelta di una soluzione unilaterale provocherebbe una grave crisi nell'Unione Europea, è quello che viene detto e ridetto da larghi strati della classe politica e dei media. Tuttavia, una soluzione di questo tipo sembra essere accettata da una larga maggioranza delle persone intervistate. Non solo lo scarto tra i sostenitori e gli oppositori è considerevole (il 57% contro il 31%), ma c’è solamente il 10% del totale delle persone intervistate che si oppone completamente a una soluzione unilaterale, ossia che pongono gli interessi della Francia al di sotto di quelli delll'UE. Il grande sogno europeo si è interrotto e i francesi si sono svegliati ancora più vicini alla propria nazione.
III. Le conseguenze politiche
La maturità dei francesi evidenziata da questo sondaggio è abbastanza stupefacente. Che si parli delle cause della situazione economica o delle soluzioni da trovare, si trovano nelle risposte le tracce di una ricca argomentazione.
Il problema maggiore viene dalla divergenza tra le posizioni politiche del PS e dell'UMP e la posizione dei loro elettori. La contraddizione, lo si è detto già, è palese e massiccia. Ciò viene rafforzato dal fatto che il 64% degli intervistati ritiene che la richiesta del protezionismo dovrebbe essere un argomento fondamentale nelle prossime elezioni presidenziale. È solo il 23% a pensare che questa domanda non sia davvero importante e solamente il 5% a considerare che l'apertura economica non costituisce un problema.
Ora, su questo punto le posizioni dei due grandi partiti francesi vanno prese con le molle. Nicolas Sarkozy aveva fatto alcune dichiarazioni durante la sua campagna elettorale che lasciavano a pensare che fosse a favore di un certo protezionismo, ma che poi non sono state seguite dai fatti. Il PS oscilla tra riferimenti alle "chiusure", addirittura ai dazi doganali (ma solo contro quei paesi che non rispettano le norme internazionali in materia sociale, sanitaria ed ambientale) e le recenti dichiarazioni di uno dei candidati potenziali, François Hollande, che ha escluso ogni ricorso al protezionismo. Si può dunque constatare che tanto la pratica dell’uno che i discorsi degli altri sono all'opposto di quello che richiedono i francesi.
Una tale divergenza è suicida. Lo è per tutti quei partiti che vorranno prendere il rischio di tralasciare un tema fondamentale della futura campagna elettorale e quindi di favorire il partito che è più in fase con l’opinione pubblica francese, in particolare il Fronte di Sinistra e il Fronte Nazionale. Inoltre, questa divergenza è suicida anche e soprattutto per politica e per la democrazia. Contribuisce al radicamento dell'idea che la classe politica, quanto meno per ciò che riguarda i "grandi partiti", ha interessi e preoccupazioni radicalmente differenti da quelli della popolazione. L'ondata populista che sta montando nel nostro paese, così come in numerosi altri paesi europei, verrà sicuramente rafforzata e potrà diventare decisiva nei prossimi mesi.
Il buonsenso vorrebbe quindi che i "grandi partiti" facciano propria una richiesta che, come indica questo sondaggio, trascende i partiti e i ceti sociali. Dovranno essere introdotte d’urgenza delle risposte forti e positive e non ci si potrà più riparare dietro l'argomento dell’abulia europea per giustificare la propria inoperosità.
Se così non fosse, dovremmo aspettarci un’ascesa dei consensi di quei partiti che avranno compreso l'importanza della questione del libero scambio e della globalizzazione. Se, dopo le elezioni, ci sarà del rimpianto, allora sarà troppo tardi.DI JACQUES SAPIR
ContreInfo.info
http://www.comedonchisciotte.org